Si avanza, col passo solenne, tra l’afa e l’odore di brigidini dei chiccai. Usciti dalla cattedrale la processione si incunea nella folla un po’ stupita e un po’ perplessa del sabato sera. Percorre a rilento il perimetro della prima cerchia di mura che quest’anno sostituisce la pista della giostra in Piazza del Duomo e sosta ai quattro angoli, per benedire, con i rioni, tutta la città. Spenti i lampioni per l’occasione, la strada è illuminata appena dalle torce disposte lungo le vie del centro. Il ritmo della banda Borgognoni, che apre in testa con il tipico repertorio delle processioni, si perde dietro i figuranti dei Rioni cittadini e della Compagnia dell’Orso. Seguono il ritmo cadenzato dei tamburi le realtà parrocchiali, le associazioni diocesane, i rappresentanti degli ordini maschili e femminili, gli ordini cavallereschi. Ci sono pure i fratelli ortodossi mentre per strada si aggrega la comunità filippina. Sfilano presbiteri, diaconi, accoliti: chiudono il Vescovo Tardelli e il proposto del Capitolo con la reliquia di San Giacomo Apostolo. Alle spalle, come finale ad effetto, due cavalli bianchi trascinano il carro con il gonfalone di San Jacopo. Lì in fondo, dove non arriva il suono della banda, il santo patrono avanza tentennando nel silenzio. Una città sfila nella città.
Nello straniamento generale, dirimpetto a via degli Orafi, il vescovo leva la reliquia per benedire il quartiere di Porta Lucchese. Qualcuno si segna – non si sa mai -, molti sbirciano incuriositi o marciano controcorrente congestionando la viabilità del Globo; altri ancora si fanno il segno della croce con irriflessa e commovente semplicità. Le giovanissime avanzano scosciate e il clero procede in lunghe sottane e parati colorati, mentre la città si svela poco a poco nel buio. Dove scarseggiano luci di vetrine e gazebo ricreativi, si apre sopra la nostra testa una pista di stelle. Un campo stellato che, generalmente accecato dai lampioni, precede la città nel tempo e nello spazio. Via Sant’Andrea incornicia il grande carro e l’antica Pieve romanica si scopre giusto sotto la stella polare. Un tempo, forse, per costruire le città sulla terra si replicavano i tracciati del cielo. Il buio in effetti rivela una città differente, anche per chi, accanto alla processione, si affaccia dalle finestre o siede a veglia solitario nei vicoli. Viene in mente la Pira e la sua amata citazione di Peguy: “La città terrena è il cantiere, ove la città di Dio si elabora e si prepara”. Le città terrene “sono l’immagine ed il principio e il corpo è la prova della Casa di Dio”. Viene da immaginarselo, il sindaco santo, minuto e strascicante dietro la banda, con gli occhialoni e le labbra umide di preghiera mentre sogna la città rinnovata dalla profezia di Isaia. Sfilando sotto il Ceppo, incastrato tra le impalcature e smarrito nella sua identità, tornano alla mente le sue parole: “In una città un posto ci deve essere per tutti: un posto per pregare (la chiesa), un posto per amare (la casa), un posto per lavorare (l’officina), un posto per pensare (la scuola), un posto per guarire (l’ospedale). In questo quadro cittadino, perciò, i problemi politici ed economici, sociali e tecnici, culturali e religiosi della nostro epoca prendono una impostazione elementare ed umana!”.
Tra porta San Marco e San Paolo le preghiere del vescovo affidano al celeste patrono intabarrato di rosso tutte le dimensioni elementari ed umane care a La Pira, descrivono una geografia nota, ma raramente pensata tutta in una volta, eppure stavolta percepita in forma condivisa. Tra i palazzi e gli scorci da cartolina la città balugina timidamente alla luce delle torce. Alla memoria La Pira bisbiglia ancora: “Ognuna di queste città non è un museo del passato: è una luce ed una bellezza destinata ad illuminare le strutture essenziali della storia della civiltà dell’avvenire”. Ma intanto davanti alla banda c’è anche chi scuote la testa e ripete : “Oioi che tristezza!” e forse chi sfila a testa alta soltanto per farsi vedere. “Stasera è la sera dei preti!” sberciano un po’ sguaiati dei giovanotti; altri, con aria più intellettuale domandano che tipo di via crucis si celebri. Bambini smaliziati domandano : “ma se nella reliquia c’è San Jacopo perché non ce lo fanno vedere?”.
Il pezzettino d’apostolo è in effetti sotto gli occhi di tutti, esposto nel reliquiario argenteo del Ghiberti, poggiato all’aperto, tra l’odore di porchetta e dei sebach, sui gradini del Battistero. Quando la processione si riversa lì davanti il vocìo generale si smorza e il vescovo si inerpica sul pulpito del Battistero (l’avevate notato prima?). Di lassù, in un clima surreale, si rivolge alla città, di fronte alla folla in ascolto, mentre le torce animano il loggiato e la facciata della cattedrale. Pronuncia tre richieste per scomodare San Jacopo, ma anche un invito aperto a ogni cittadino: lavoro per tutti e più solidarietà, l’appello infine, perché la città recuperi la propria anima spirituale. Il vescovo Fausto parla chiaro e ricorda predicatori d’altri tempi, quando da lassù, sulla fine del Trecento si rivolgevano ai pistoiesi il vescovo Andrea Franchi e oratori famosi come Giovanni Dominici. Archeologismi para religiosi?
Eppure a me, grazie a questa inedita serata, forse imperfetta ma sincera, torna in mente Papa Francesco nell’Evangelii Gaudium: “Abbiamo bisogno di riconoscere la città a partire da uno sguardo contemplativo, ossia uno sguardo di fede che scopra quel Dio che abita nelle sue case, nelle sue strade, nelle sue piazze. La presenza di Dio accompagna la ricerca sincera che persone e gruppi compiono per trovare appoggio e senso alla loro vita. Egli vive tra i cittadini promuovendo la solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità, di giustizia. Questa presenza non deve essere fabbricata, ma scoperta, svelata. Dio non si nasconde a coloro che lo cercano con cuore sincero, sebbene lo facciano a tentoni, in modo impreciso e diffuso”.
Ai piedi del battistero, accanto alla veneranda reliquia e al popolo assortito, si può dunque riflettere sulla città e la sua identità. C’è chi rimpiange la giostra, non senza punte di polemica, ma anche chi ne è sdegnato, chi c’è e chi non c’è, chi cerca eventi e commerci, chi addirittura rimpiange la sovversione dell’ordinario tipica del vecchio blues, con il suo appiccicume di birra ed orina. Di che cosa abbiamo davvero bisogno? Ci sarà stato, almeno un pochino, dentro e fuori la processione, il desiderio di sentirsi popolo? Il gusto di superare la logica dell’evento per vivere quella della presenza? Il gusto di sentirsi popolo piuttosto che quello di godere nei propri piccoli circuiti?
Gli interrogativi rimbalzano sulla folla, sospinti dal soffio metallico della macchina dei brigidini – reliquiario popolare arcano e incantatore, complesso e luccicante come l’aggraziato capolavoro del Ghiberti –, ondeggiano tra le bandiere dei rioni e il monumentale palco del Blues, scintillano alla luce delle torce e della cattedrale vuota e spalancata, balzano nel riflesso azzurrino di cellulari sempre accesi, per salire al cielo tramutati in preghiera.
Ugo Feraci
.