Il vocabolario originario per “rinascere dall’alto”: «rinascere»

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Abbiamo chiesto ad alcuni giovani di proporre una riflessione sulle parole chiave del dialogo tra Gesù a Nicodemo. Un brano, contenuto nel terzo capitolo del Vangelo di Giovanni, in cui è possibile isolare un piccolo “vocabolario” di “spiritualità” da cui è stato preso spunto per le tematiche discusse nell’edizione 2018 de “i Linguaggi del divino – Rinascere dall’alto”.

Alberto Perticone (23 anni), giovane studente universitario, propone la sua riflessione su: «Rinascere».

Rinascere dal dolore

Pensando alla rinascita, viene spontaneo soffermarsi su tutti i momenti in cui abbiamo dovuto riprendere in mano le redini dopo una sconfitta personale, un insuccesso lavorativo, un evento traumatico legato alla nostra salute o a quella di una persona cara. Senza scadere nel pessimismo, ci si accorge come difficilmente i momenti felici ci conducono ad una rinascita. Possono portarci ad intraprendere delle scelte maturate precedentemente, ci spingono a rincorrere sogni e vocazioni maturate con ponderazione e, allo stesso tempo, con il vivido slancio di chi con entusiasmo intraprende un cammino nuovo, tuttavia non possono considerarsi rinascite, giacché per rinascere, occorre innanzitutto morire.

Nei momenti difficili rintraccio le scintille che muovono al riscatto. Dunque, rimane da chiedersi cosa sia dolore e cosa sia rinascita, senza la pretesa di dare risposte accademiche, ma semplicemente derivare dall’esperienza comune delle chiavi di lettura per comprendere meglio il tema. La morte prematura di una persona cara, genitore o figlio, la disabilità sopraggiunta per un incidente o per una malattia, l’incapacità fisica o mentale di ribellarsi ad un demone che ci impedisce di vivere una vita “normale”, sono esempi di quotidiano dolore, fertile terreno per una rinascita radicale.

L’uomo anela alla felicità e vivendo esperienze simili, dopo un primo periodo di abbandono, si scuote cercando con ogni mezzo di uscire dall’incubo dell’accaduto. Numerose sono le persone pubbliche che hanno dimostrato tutto il coraggio di cambiare vita, chi scrive con gli arti inferiori dopo aver perso l’uso delle mani o chi partecipa alle para-olimpiadi insegnandoci in mondovisione che il suo podio non riguarda solo lo sport. Eppure questi sono personaggi pubblici, ammirati e pubblicizzati, ma di persone colpite da esperienze dolorose ce ne sono molte di più attorno a noi. Fin qui di rinascita ce n’è ben poca e la tentazione di essere padroni del proprio fine vita è forte, sollevando questioni etiche di non poco conto. Torna in mente l’Ultimo canto di Saffo: «Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso/ Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo/ Il ciel mi fosse e di fortuna il volto?/ In che peccai bambina[…]?». Ci si domanda, cioè, se siamo solo numeri, se rappresentiamo soltanto quella piccola, ma atrocemente consistente percentuale di chi è stato punito, di chi ha dovuto subire tutto senza apparente ragione. Ci si domanda qual è il peccato che ci ha portato a dover soffrire al posto degli altri, per gli altri, scontando una colpa forse commessa da nessuno o forse dai padri; come se trovarne la causa potesse in minima parte darci conforto.

La rinascita parte dalla consapevolezza che di vita terrena non ce n’è una sola. La vita celeste ci accomuna resuscitandoci nel corpo e nello spirito, ma quella terrena ha mille sfaccettature e, come scriveva Flaubert, le persone felici sono tutte uguali, mentre chi soffre ha sempre una storia diversa da raccontare. Ricostruire la propria quotidianità per se stesso, per gli altri o per Qualcuno porta alla rinascita. Chi subisce una grave menomazione fisica, per esempio, rinasce anche nel corpo; con quel che ha, deve ripartire da capo e costruire una vita che non sarà affatto uguale alla vita di prima, ma conserverà sempre buone ragioni e stimoli per essere vissuta anche con quel poco che fisicamente è rimasto. Oppure si pensi alle persone che nelle comunità rinascono dopo vite di abusi e dipendenze, pronti a ripartire col solito corpo, ma con nuove prospettive.

Dunque, mi sembra che la rinascita sia l’occasione che Qualcuno ci ha dato di non sprecare il dono della vita, di reinventarlo anche in un’epoca economica in cui ciò che è logoro viene scartato e non aggiustato. La conservazione della pietra scartata dal costruttore, però, non serve a niente se non viene ripensata come pietra d’angolo delle nostre comunità. Se la medicina tiene in vita gli ammalati senza che la società li reintegri, stiamo riducendo la rinascita ad un tagliando del nostro corpo. Rinascere non è finire il carburante e rifornirsi alla pompa, è cambiare mezzo di trasporto; rappresenta la fatica di raggiungere la stessa destinazione degli altri, negli stessi tempi possibilmente, ma con l’auto ormai in panne, sforzandoci di far fruttare quello che è rimasto. Infine, per sollevare il morale da una trattazione vagamente tetra, vorrei estendere a tutti l’augurio di poter privatamente coltivare verso il prossimo la compassione, perché possiamo tutti rinascere, sensibilizzandoci attraverso le esperienze dolorose di chi ci circonda.

Alberto Perticone