Un nuovo volto di Dio? In apertura abbiamo provato a rintracciarlo, nei solchi della riflessione filosofica e teologica moderna, con l’aiuto di Mons. Frosini. Martedì 6 settembre l’indagine si sofferma sul dato biblico grazie all’intervento di Carmine di Sante, teologo e biblista. Un teologo, precisa di Sante, che è anche credente che si interroga criticamente sulla propria fede a partire dalla propria esperienza. Un teologo che si domanda se non sia il caso di liberare il linguaggio teologico dall’armamentario linguistico e concettuale che fin dai primi secoli i cristiani presero a prestito dalla filosofia greca. Questione non facile, che gli studiosi passano sotto il nome di deellenizzazione del cristianesimo, e che vorrebbe risalire alle radici ebraiche della Scrittura per provare a decifrare il Dio di Gesù Cristo. Quel Dio che poi è anche nostro, anzi, di ogni uomo. Di Sante, si inoltra nei campi dell’antropologia, affermando che il Dio di Gesù è in realtà il Dio di tutte le religioni. Non soltanto colui che tutti attendono, ma che tutti desiderano e a cui danno forme essenziali condivise. È pur vero che siamo figli di culture che percepiscono sé stesse in senso autoreferenziale, ma anche a san Pietro capitò di imparare l’apertura universale della fede: “Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto” (Atti 34-35). Lo stesso Gesù suggerisce che alla resa dei conti l’appartenenza etnica non avrà alcun valore. Matteo 25 ce lo ricorda, lasciando capire che neppure la fede si pone come argomento decisivo, lasciando spazio alle possibilità dell’altro.
Quali sono, allora, i tratti condivisi dell’idea di Dio? Almeno due ricorrono un po’ dappertutto e ci presentano Dio come amore e come Signore. Due tratti che arrivano a introdurci al Dio di Gesù Cristo. Se in ogni parte della terra Dio appare come donatore e legiferante è pur vero che non possiamo arenarci su un vago relativismo, piuttosto possiamo pensare, seguendo un suggerimento di Armido Rizzi – maestro di Di Sante – che tra tutte le religione intercorra un rapporto che va dall’esplicito all’implicito. Ciò che resta implicito in una divinità sperduta di un angolo della terra, il Dio di Gesù lo esplicita fino in fondo. Una verità che ci conferma l’unità del testo biblico: il Dio di Gesù è, in primo luogo, il dio di Israele. Il Dio di Gesù è il Dio del popolo ebraico, anche se ce siamo dimenticati e per molti secoli la Chiesa stessa ha convissuto con sentimenti antigiudaici. Oggi siamo soprattutto fuorviati da luoghi comuni sul Dio violento e vendicatore del vecchio testamento che poco o nulla sembra avere a che fare con il Dio Padre di Gesù. Che Dio è, dunque il Dio di Israele? Lo comprendiamo se risaliamo al ‘mito’ fondante della Bibbia, al racconto dell’Esodo. È in questo testo e negli altri quattro libri della Torah che dobbiamo cercare il volto del Dio di Gesù.
Qui, quando Dio entra in scena, lo fa per soccorrere l’uomo: “Gli Israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio. Allora Dio ascoltò il loro lamento, si ricordò della sua alleanza con Abramo e Giacobbe” (Esodo 2,23). Qui accade narrativamente un evento strepitoso: Il gemito del popolo è il gemito di chi grida l’abbandono. Il gemito indiretto che cade apparentemente nel nulla, come quello di un bimbo gettato nel cassonetto, che piange disperato senza sapere nemmeno di indirizzare il suo pianto a qualcuno. Non sono gli ebrei a ricordarsi di Dio, ma Dio stesso a ricordarsi del suo popolo. Forse non lo conosciamo bene questo Dio dell’antico Testamento. Ancora dobbiamo scoprirne il volto. È il Dio, tra l’altro – come suggerisce il Salmo 56 – che raccoglie le lacrime dell’uomo: “le mie lacrime nell’otre tuo raccogli; non sono forse scritte nel tuo libro?”
Questo Dio che si definisce nel legame con l’umanità è un Dio misericordioso; definito dal suo chinarsi su ciò che fa soffrire l’altro.
Dov’è allora lo specifico di Gesù di Nazaret? Potremmo identificarlo nel fatto che Gesù porta la nuova alleanza. Nuova perché altra o piuttosto perché rinnovata, portata a novello splendore? Dobbiamo prendere per buona la seconda accezione, perché nuovo, evidentemente, è da intendere senza contrapposizione con l’antico. Di Sante ci suggerisce che la novità di Gesù consiste in un rinnovato prendersi cura che trova espressione nei miracoli, ma soprattutto nel perdono. Paolo, riconducendo all’essenziale la figura di Gesù, ne indica lo specifico nella passione, morte e resurrezione. Perdono è dunque prendere su di sé la violenza del mondo e non rispondere alla violenza. Restare in silenzio senza risentimento alcuno. René Girard, il famoso antropologo teorico del capro espiatorio, ci aveva messo in guardia: il risentimento è la radice di ogni microviolenza, induce a rispondere alla violenza e all’errore dell’altro con altra violenza. Gesù spezza il meccanismo del risentimento e il meccanismo vittimario già presente nella Genesi, quando dopo la colpa l’uomo tenta di smarcarsi in ogni modo, presentandosi vittima, indicando il colpevole nella donna e la donna nel serpente.
Il perdono, invece – conclude di Sante- consiste nell’eliminazione del veleno del cuore umano. Il perdono non è l’alternativa alla giustizia, anzi ad essa conduce. Ma è una giustizia più alta, quella capace di creare un mondo di fratellanza con tutti.
U.F.
Carmine Di Sante ha studiato teologia presso l’Istituto Teologico di Assisi, si è specializzato in Scienze Liturgiche al Pontificio di Sant’Anselmo di Roma e si è laureato in Psicologia all’Università “La Sapienza” di Roma. Ha insegnato all’Istituto Teologico di Assisi e ha lavorato come teologo dal 1980 al 2000 al SIDIC (Service International de Documentation Judéo-Chrétienne) di Roma, un centro fondato dopo il Concilio Vaticano II per promuovere l’applicazione della Dichiarazione conciliare Nostra Aetate 4 e per favorire il dialogo ebraico-cristiano. (fonte della biografia : san Paolo).