Dalla gloria dei santi alla speranza cristiana: omelia del vescovo Tardelli

Tutti i santi 1 novembre 2018

(Camposanto della Misericordia Pistoia)

Il primo e il due di novembre sono giorni particolari. Dedicati al ricordo di chi non è più visibilmente tra noi, sono giorni che mescolano insieme lacrime e speranza, dolore e consolazione. In ogni caso non ci lasciano indifferenti. Sono giorni che ci mettono infatti davanti il mistero della morte. E, hai voglia di esorcizzare questa realtà con la baldoria di ieri sera e di stanotte. La morte incombe sempre sulla nostra vita come una minaccia. Hai voglia di sfidarla, come l’uomo da sempre ha cercato di fare. Essa rimane davanti a noi come un enigma senza risposta. Possiamo provare a non pensarci; possiamo cercare di distrarci, ma non c’è niente da fare: la scomparsa dei nostri cari, le tragedie del mondo, i nostri stessi malanni, gli anni che avanzano; tutto ci riporta lì, di fronte a quella porta chiusa, oltre la quale nessuno di noi sa esattamente che cosa ci sia; nessuno di noi infatti ha visto e sentito cosa c’è aldilà. Della morte e dell’aldilà noi non ne abbiamo esperienza. Non sappiamo cosa sia. La morte è altro da noi. Un qualcos’altro che possiamo constatare intorno a noi ma di cui non possiamo fare esperienza diretta e narrabile. Non è pessimismo questo: è invece guardare in faccia la realtà.

Una cosa però la sappiamo bene, la sentiamo, la proviamo fin nelle fibre più profonde dell’anima: noi vogliamo vivere; non vogliamo morire. La morte contraddice quella sete di vita che portiamo dentro e che vediamo per es. esprimersi con forza nella lotta di ogni bambino per venire al mondo. La morte non fa per noi. La sentiamo come una nemica che ci ghermisce, ci travolge, rovina i nostri sogni e le nostre attese. Che ci porta via gli amici più cari, ci strappa via i nostri genitori, a volte la sposa o lo sposo, altre volte i figli. E ci fa sentire sempre più soli. Piano piano si fa il vuoto intorno a noi. E quanta nostalgia porta con sé il ricordo dei giorni passati, dei volti che abbiamo incontrato ed amato, coi quali anche abbiamo discusso e coi quali magari ci siamo arrabbiati.

Quanta nostalgia al pensiero che ormai tutto è passato e gli anni sono volati troppo in fretta, senza che ci abbiano lasciato il tempo per gustare la vicinanza dei nostri cari. Quante cose avremmo ancora voluto dire loro; quanto ancora avremmo voluto ascoltare dalla loro bocca; quante le cose rimaste in sospeso e ormai irrecuperabili; ormai irrimediabilmente passate! No.

La morte non fa davvero per noi; non la vogliamo; non ci piace, non è nostra amica. E se per qualcuno essa è apparsa tale alla sua disperazione; oppure come sollievo al suo insopportabile dolore, è solo per una situazione di estremo disagio e solitudine, che per circostanze a volte imponderabili uno si trova a vivere. Se trovasse consolazione e potesse placare il suo dolore nella cura della medicina e nella vicinanza affettuosa degli altri, credo che nessuno si darebbe la morte. Così dunque, davanti alla morte proviamo tutti un senso più o meno forte di angoscia. A noi che viviamo questa angoscia, l’odierna festa di ognissanti non fa discorsi ma ci mette davanti un mondo di viventi, che hanno vinto la morte; un modo di gioia e beatitudine. Fatto di uomini e di donne, tra i quali speriamo con tutto il cuore ci siano anche i nostri cari, che cantano e sono felici, dopo aver faticato lungamente nella vita terrena. E’ la schiera innumerevole dei santi e delle sante. E’ la visione dischiusa dal libro dell’Apocalisse che abbiamo ascoltato: Ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce: «La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello».

Ci sono i martiri che hanno perso la vita per Cristo, ma ora vivono nella gloria; ci sono i santi monaci e monache; ci sono padri e madri di famiglia, giovani e vecchi, di ogni, lingua, popolo e cultura. Sono nella gloria, ci dice la liturgia della festa di oggi. E di molti noi conosciamo la loro intercessione per noi, a partire da Maria SS.ma che per singolare privilegio non ha conosciuto la corruzione del sepolcro ma è stata assunta in cielo in corpo e anima.

E poi pensiamo solo ad alcuni altri, grandissimi, straordinari, come San Francesco, Sant’Antonio, San Padre Pio; pensiamo ai santi apostoli che noi pistoiesi particolarmente veneriamo: San Jacopo, San Bartolomeo, Sant’Andrea, San Giovanni; i nostri santi vescovi Sant’Atto, il Beato Franchi; le nostre sante donne come la beata Caiani.

E poi pensiamo ai Papi santi del nostro tempo che abbiamo conosciuto e incontrato: San Giovanni XXIII°, San Paolo VI, San Giovanni Paolo II; oppure ancora giovani luminosi come la beta Chiara Badano e ancora una infinità di altri nostri fratelli maggiori che ci amano e ci vogliono felici.

Pensando a loro e sentendoli qui accanto a noi, nella comunione dei santi, ci rincuoriamo e ci solleviamo dalla nostra angoscia.

Il pensiero che anche i nostri amici e i nostri familiari possano essere partecipi della gloria dei santi, ci apre il cuore alla gioia che esprimiamo con quei fiori che deponiamo sulla tomba dei nostri defunti ma che ancor più possiamo esprimere facendo opere di bene, anzi, sforzandoci di essere uomini e donne delle beatitudini, come ci ha ricordato il Vangelo. Beati i poveri in spirito, beati quelli che sono nel pianto, beati i miti, beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, beati i misericordiosi, beati i puri di cuore, beati gli operatori di pace, beati i perseguitati per la giustizia. La strada delle beatitudini è la strada di Cristo. Una strada che si può percorrere, anche se con tanti tentennamenti e tante battute d’arresto. E’ la strada che hanno percorso i santi e che è proposta anche a noi. Chi segue questa strada, passa già ora dalla morte alla vita e la morte non può più bloccarlo nella paura. Chi ascolta la parola di Dio e si sforza di metterla in pratica; chi pratica l’accoglienza dell’altro che è nel bisogno e apre il suo cuore a Dio e ai fratelli, ha compreso la lezione che viene dai nostri fratelli defunti, santi o ancora bisognosi di purificazione. Così, nonostante tutto, potremo arrivare persino a chiamare la morte, come ha fatto San Francesco, nostra sorella, per la quale benedire il Signore.




IL PROFUMO DELLA VITA

Venerdì 23 marzo, con il tragitto dal Battistero di San Giovanni in Corte alla chiesa di San Giovanni Fuorcivitas, si è concluso il cammino delle stazioni quaresimali; un «itinerario quaresimale che ci ha visto attraversare la città da un chiesa all’altra, andando dietro al Signore, per cercare Colui che ci ha cercato e trovato per primo».

Un cammino fermatosi alle soglie della Settimana Santa, che prima di ripercorrere la passione di Cristo ha fatto gustare, in anticipo, il profumo della vita. Il vangelo di venerdì scorso raccontava infatti la vicenda di Lazzaro: «il tripudio della vita – ha ricordato il vescovo Tardelli nella sua omelia -. La resurrezione di Lazzaro, amico di Gesù, come la risurrezione del figlio della sunamita ad opera del profeta Eliseo, ci fanno sentire la gioia, il profumo, l’allegria della vita».

Una fragranza che fa misurare tutta l’incompatibilità tra l’uomo e la morte. «Possiamo compiere tutti gli sforzi del mondo per assuefarci alla morte; possiamo tentare di esorcizzarla in ogni modo; cercare di tenerla lontana dalla nostra vista, dalla nostra esperienza….. Ma non c’è niente da fare. Pur nello stordimento della distrazione – ha ricordato il vescovo -, essa, col suo carico di tristezza, di gelo e di ineluttabilità, torna ad assalirci sempre di nuovo (…). Tutto si ribella in noi di fronte alla morte. Non siamo fatti per la morte».

La vicenda degli uomini, senza l’orizzonte di Dio, resta incastrata nel dramma della finitudine e della fragilità. Avvertiamo, infatti «come una contraddizione inaccettabile venire alla vita, respirarla a pieni polmoni, magari superando grandi difficoltà, e poi finire nel vuoto di un sepolcro. Per tutto questo, il miracolo della risurrezione di Lazzaro rappresenta una esplosione di gioia e di speranza». Eppure anche Lazzaro, tornato alla vita, era destinato a morire di nuovo. Il miracolo della vita sfuma forse nell’illusione?

Forse qualcuno si ricorda –di quel film scandaloso, ma per niente banale che è l’Ultima tentazione di Cristo di Scorsese – la scena in cui Gesù chiama Lazzaro a uscire dal sepolcro. D’improvviso, dall’oscurità del sepolcro, Lazzaro tende la mano a Cristo. Gesù è quasi sconvolto dalla forza della sua preghiera. La mano tesa di Lazzaro, già segnata dalla decomposizione, lo afferra e lo trascina con sé, per un attimo, nel buio del sepolcro. Immagine sconvolgente di un Cristo inconsapevole di fronte all’orrore della morte.

I Vangeli ci dicono che la morte non ha l’ultima parola. Che Gesù, con buona pace di Scorsese, è entrato davvero nel buio del sepolcro ma, seppure dentro il dramma della passione, ci è entrato consapevolmente. E ne è uscito risorto. Occorre, dunque, «andare più in profondità e leggere le cose alla luce, non tanto della risurrezione di Lazzaro ma di quella di Cristo (…) Alla luce di Cristo allora, morto e risorto per portare a compimento il disegno del Padre; morto e risorto nel segno dell’amore che è Dio stesso, possiamo comprendere che la vita vera, quella piena ed eterna, che già comincia quaggiù ma che si realizzerà definitivamente oltre la morte, è quella che si condensa nell’amore».

Cedere all’orrore e allo sgomento della morte, è per il cristiano una tentazione. «Ben misera cosa sarebbe però – ha precisato il vescovo- fermarsi a gustare la superficie della vita, i suoi aspetti esteriori, le sue manifestazioni più contingenti se non andassimo invece al succo della vita; se non andassimo ad attingere alla fonte della vita vera che è Gesù Cristo».

Ben misera cosa sarebbe se cedessimo alla nostra ‘ultima tentazione’, quella di sfuggire alla volontà di Dio, «se non imparassimo a godere della gioia che ci viene da questa vita di Dio in noi, che è libertà dal peccato, pienezza d’amore, carità operosa nei confronti dei fratelli. In questo modo, niente di ciò che è veramente umano viene disprezzato o perduto, anzi, nella vita di grazia che lo Spirito Santo realizza in noi, tutto trova pieno significato e profondità».

Il rischio di non andare in profondità e di non riuscire a cogliere il “di più” di vita che ci dona il Signore conduce ad un’esistenza perennemente in bilico sull’abisso. La notte dei morti viventi è in realtà il lungo giorno di chi rincorre la vita laddove non c’è: «Anche se brindassimo tutti i giorni alla vita, anche se passassimo i giorni nella spensieratezza di tutte le possibili gioie terrene; anche se avessimo tutto e tutto ci potessimo permettere, saremmo nient’altro che dei morti che camminano per le strade».

Una prospettiva assai misera ed amara, almeno quanto la celebre battuta del film horror “la notte dei morti viventi” : «Vivere assieme per noi non è una gran gioia, ma morire assieme non risolverà niente». Chi è già morto dentro non possiede – ha continuato il vescovo – «la vita di Dio, la vera vita, quella Grazia santificante che proviene solo da Dio e si realizza soltanto nell’amore da Lui ricevuto e a sua volta donato a Lui e agli altri».

È proprio di fronte alla possibilità di vivere da morti, come se non ci fosse prospettiva davanti all’orrore della morte «che Gesù, come dice il racconto evangelico, letteralmente “scoppiò in pianto”. Pensiamoci».

«Alla luce interiore della Grazia – ha concluso mons. Tardelli-, anche il morire terreno diventa occasione di lode e gratitudine». Non c’è nessuna morte (neanche la seconda morte di Lazzaro) che possa sottrarre alla vita piena chi si lascia raggiungere dall’amore di Dio.
«È San Francesco a dircelo nel suo meraviglioso cantico delle creature: “Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò skappare: guai a•cquelli ke morrano ne le peccata mortali; beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime voluntati, ka la morte secunda no ’l farrà male.”»

Leggi l’intera omelia..




TI SEI MAI ACCORTO DI ESSERE GUARITO?

L’omelia del Vescovo Tardelli per la IV stazione quaresimale

Ci sono occasioni in cui il Signore ci guarda con particolare evidenza. Sta lì e ci scruta. In silenzio. Umilmente. È uno sguardo discreto, colmo di misericordia. E quanto più ci legge dentro, tanto più è misericordioso.
Nell’adorazione eucaristica il Signore ci guarda. Dal piccolo occhio aperto nell’ostensorio volge lo sguardo sull’umanità varia, dolente e gaudente che si ferma –anche soltanto per il tempo di un segno di croce – davanti a Lui.

La quarta stazione quaresimale si inserisce in questo clima di adorazione e preghiera che da qualche anno, grazie a Papa Francesco, sta diventando tradizione. Venerdì 16 marzo, infatti, la Diocesi di Pistoia ha celebrato presso la parrocchia di San Paolo Apostolo la “24ore per il Signore”. Una ‘maratona’ di adorazione no-stop durante la quale è offerta la possibilità di riconciliarsi con il Signore. Un bagno di misericordia e di preghiera per riconoscere il primato di Dio. Papa Francesco lo ha ricordato anche in questa edizione 2018: «Dio è il primo e ci salva totalmente con amore».

A Pistoia il Vescovo Fausto Tardelli ha celebrato la messa stazionale all’interno di questo contesto di preghiera proponendo alla riflessione dei fedeli il brano evangelico del miracolo del Cieco nato (Gv 9,1-9).

Di fronte a chi gli contesta la prodigiosa guarigione, contrapponendosi a Gesù, il cieco ribatte con decisione quanto gli è accaduto. «Questo cieco nato – ha affermato il vescovo – ha dalla sua, la forza dei fatti. Gli altri, i farisei, fan solo discorsi, chiacchiere, ideologia, esprimono pregiudizi, non vedono la realtà; sono davvero, loro, dei ciechi che, per giunta, pensano di vederci bene».

Uno scambio delle parti che rischia di farci pensare. Ma anche l’affermazione netta e decisa di chi è stato raggiunto da una grazia insperata e neppure richiesta: «nel caso del cieco nato, l’iniziativa è presa da Gesù». «questo “fatto” è “capitato” al cieco. È sopravvenuto alla sua vita. Non lo ha cercato. Non risulta infatti dal testo che il cieco abbia chiesto la guarigione, come invece in altri casi descritti nel vangelo. Tutto ciò, carissimi amici, ci fa riflettere su di una verità che connota l’agire di Dio, sempre: è Lui che prende l’iniziativa e tutto viene da lui».
È il primato di Dio che tanto ripropone papa Francesco e che il vescovo Tardelli racconta con efficacia: «Anche quando giustamente noi cerchiamo il suo volto, lo desideriamo, ci rivolgiamo a lui con la supplica del peccatore, ciò è possibile solo perché Egli con il suo amore ci ha prevenuto. Lui sempre ci ama per primo. Senza alcun nostro merito, senza alcuna nostra pretesa».

E se qualcuno, come i farisei di allora, introduce il baco del sospetto e invita a pensare che dietro “Dio” sta una mera proiezione il vescovo ricorda che «Non è il nostro vuoto che chiede e fonda la sua pienezza. Non è l’uomo che crea Dio. È vero esattamente il contrario: è Dio che crea l’uomo e imprime nell’uomo la nostalgia di Lui. È il Signore che ama infinitamente e dona infinitamente se stesso a noi ed è ancora lui, luce del mondo che fa scoprire la novità gioiosa del vedere e svela la bruttura delle tenebre del male che sono in noi e nel mondo, senza che nemmeno ce ne accorgiamo».

Il Signore ci ha guariti. Ma forse non ce ne siamo neppure accorti. Quando ce ne rendiamo conto iniziamo a vivere da cristiani. «La vita cristiana – aggiunge il vescovo – inizia laddove ci si riconosce cercati e amati; laddove ci si riconosce voluti e pensati con amore. Il primo atto della vita cristiana … è accorgersi di essere cercati e trovati; che c’è uno che è totalmente per noi, Gesù di Nazareth, figlio di Dio».

Cristo, come afferma un autore, è davvero il “terapeuta dello sguardo”: non soltanto ci aiuta a vedere e affina la nostra vista «tende per noi il ponte che ci fa passare dal vedere al contemplare e dal semplice sguardo alla visione di fede».

«Anche noi, – ha proseguito il vescovo- come il cieco nato, dovremmo vivere della certezza di un fatto molto concreto: che cioè siamo stati guariti; ci è stata donata la vista». Il problema – paradossalmente- resta la fatica di riconoscere la nostra guarigione. La vita nuova donata dal battesimo è un fatto; ma quanto spesso è facile dimenticarlo!

«Lo dobbiamo dire infatti: tante volte, l’essere stati fatti partecipi della salvezza; l’essere stati fatti rinascere come figli di Dio; l’essere stati illuminati dalla Grazia non è un fatto, nella nostra vita». Amara constatazione che registra cristiani senza Cristo, salvati senza desiderio di salvezza. Quanto è un dato di fatto -precisa il vescovo- «Non è la certezza della nostra vita; non è la roccia su cui poggia la nostra esistenza. Non è esperienza vissuta; non è gioia di chi ha ritrovato la vista; non è entusiasmo di chi è stato liberato dalle catene e finalmente si sente libero. È una fede sbiadita, scolorita, la nostra. Abitudinaria e mesta. Ed è precisamente in questo contesto di fiacchezza della nostra fede che diventano facili i tradimenti della legge del Signore, le ottusità nei confronti dei fratelli; i compromessi con i nostri vizi, l’accomodamento alle logiche egoistiche del mondo».

Anche per questo abbiamo bisogno di entrare dentro il suo sguardo. Di farci contemplare con amore e lasciarci toccare dalla sua misericordia, perché il suo sguardo risani i nostri occhi.

Leggi l’intera omelia…




RIVESTIRSI DI LUCE. LE PAROLE DEL VESCOVO PER LA SOLENNITÀ DELL’EPIFANIA

Nella solennità dell’Epifania il vescovo Tardelli ha istituito ministri tre giovani della Diocesi che si preparano al sacerdozio: Alessio Bartolini e Eusebiu Farcas hanno ricevuto il ministero dell’accolitato, mentre Fratel Antonio Bendetto della Fraternità apostolica di Gerusalemme ha accolto il ministero del lettorato. Un momento di festa nel giorno dell’Epifania in cui il vescovo ha invitato a guardare Gesù Cristo, il Dio che «si è fatto uomo per attrarre tutti a sé e condurre tutti nella comunione piena con Lui».
Epifania è manifestazione. E la manifestazione di Gesù si esprime nell’universalità della chiamata alla conversione, nella possibilità di conoscere, amare e adorare il Dio che si fa come noi: «perché ogni uomo, di qualunque razza e colore, di qualunque lingua e paese della terra, lo potesse incontrare e, liberato dal peccato, avere salvezza eterna».

Epifania è anche festa di luce che rischiara ogni oscurità: “Dalla grotta di Bethleem si irradia una luce interiore e vittoriosa sulle tenebre maligne del mondo, che attira ogni uomo e ogni popolo verso la fonte dell’amore e della vita che è Dio”.

Epifania è invito alla testimonianza, a «rivestirsi di luce». «”Alzati, rivestiti di luce”, dice Dio. Bellissimo davvero questo invito che Dio rivolge a ciascuno di noi stamani, forse ancora troppe volte ripiegati su noi stessi, a piangerci addosso, intenti a leccarci le ferite della vita oppure spenti e chiusi nel nostro tran tran quotidiano, tristi e fiacchi per le nostre miserie e per come vanno le cose del mondo.

«“Alzati, rivestiti di luce!”». Un invito, ha ripetuto il vescovo Tardelli che diventa motivo di gioia e speranza: Rivestirsi di luce è una espressione, straordinaria. (…) essere rivestiti di luce sta a indicare una luce che ci ricopre completamente, dando alla nostra persona una lucentezza, una luminosità che si diffonde, che rallegra, che attrae».

Epifania è contemplazione di una profezia che si è compiuta, perché invita a considerare l’universalità raggiunta dall’annuncio cristiano: «In ogni parte della terra – ha aggiunto il vescovo – è diffuso il popolo di Dio e – nonostante il peccato – la chiesa splende della luce di Cristo, anche attraverso il martirio, la testimonianza condotta fino al versamento del sangue».
I re magi sono segno eloquente dell’universalità del messaggio cristiano. La loro storia è «riconoscimento della forza attrattiva di Cristo su tutti gli uomini e invito a camminare anche noi, tra le tenebre del mondo, verso la luce di Cristo; anzi, a lasciarci illuminare da Lui nella fede, nella speranza e nella carità, facendoci addirittura rivestire di luce, per essere araldi e testimoni del suo amore nel mondo».
Un invito alla missione che «non possiamo non raccogliere», «mettendo al servizio di Dio la nostra vita per la diffusione del suo Regno».
È la strada percorsa dai tre nuovi ministri «l’uno lettore per custodire e curare il servizio della parola di Dio contenuta nelle Scritture Sante; gli altri accoliti, per servire all’altare il mistero dell’amore di Dio che si svela in ogni eucaristia».
Tre giovani che «udita la chiamata del Signore (…) Hanno cominciato a farsi “rivestire di luce” e di questo, tutti noi siamo particolarmente felici».

Leggi l’intera omelia…