Frosini: L’uomo e il suo desiderio di infinito

Sabato 20 ottobre chiude la terza settimana dei “Linguaggi del divino”, nella sala capitolare del convento di San Francesco alle 17.30, l’intervento di mons. Giordano Frosini, presbitero pistoiese, teologo e fondatore delle settimane teologiche pistoiesi, con un intervento intitolato “Desiderio di infinito tra neopaganesimo e “utopia cristiana”.

Quali sono i bisogni e le attese fondamentali dell’uomo di oggi e di sempre? «La domanda – afferma Frosini – chiama in causa il nostro più profondo mondo interiore, la storia dell’intera umanità, la letteratura più incisiva di sempre, specialmente del nostro tempo. In questa atmosfera sta ritornando felicemente una parola che si diffuse nei primi secoli del cristianesimo per opera dei padri della chiesa sia orientali che occidentali: divinizzazione».

Giordano Frosini (1927) è presbitero della diocesi di Pistoia dal 1950.
Dopo gli studi compiuti in seminario, ha conseguito la laurea in filosofia presso la Pontificia Università Gregoriana e la laurea in teologia presso la Pontificia Università degli studi S. Tommaso d’Aquino.

Nella diocesi di Pistoia è stato rettore del seminario, vicario episcopale e successivamente vicario generale. Ha dato avvio, dagli anni Settanta del Novecento, ad attività di formazione di laici e clero come la Scuola diocesana di teologia, il Centro culturale Jacques Maritain, la Settimana teologica diocesana.

Accanto all’impegno pastorale ha svolto una costante attività di insegnamento e di approfondimento culturale: per circa venticinque anni è stato docente di Teologia sistematica presso lo Studio Teologico Fiorentino, poi Facoltà teologica dell’Italia centrale.

A partire dagli anni Settanta è autore prolificissimo di studi di ricognizione e di divulgazione teologica: una cinquantina di titoli – alcuni tradotti in spagnolo, portoghese, polacco, albanese -, a cui vanno aggiunti gli innumerevoli articoli pubblicati su riviste scientifiche, periodici e giornali fra i quali «Il Regno», «Famiglia Cristiana», «Settimana del clero», e il giornale diocesano di Pistoia «La Vita», di cui è direttore responsabile. Per cinque anni è stato una voce della rubrica «Ascolta si fa sera» su Rai Radio1.

Al primo libro Teologia delle realtà terresti (Marietti 1971) sono seguiti tra gli altri (possiamo qui ricordare solo pochi titoli): La fede e le opere. Le teologie della prassi (San Paolo 1992); Aspettando l’aurora. Saggio di escatologia cristiana (EDB 1994); Una Chiesa possibile (EDB 1995); Chi dite che io sia? Una cristologia per tutti (EDB 1997); Lo Spirito che dà la vita. Una sintesi di pneumatologia (EDB 1998); Incontro al Padre. Una Teo-logia per tutti (EDB 1999); Dio il cosmo l’uomo: exitus-reditus (EDB 2011). Ma la sua penna felice ha ricostruito e presentato anche figure capitali o comunque significative del passato e del presente della Chiesa da Ildegarda di Bingen a Teresa di Lisieux, da John Henry Newman a Pietro Scoppola.

Nel 2008 al suo contributo di studio è stata dedicata la Settimana teologica diocesana: in quella occasione l’allora vescovo di Pistoia Mansueto Bianchi sottolineava la rilevanza del suo impegno al dibattito che aveva segnato la Chiesa dopo il Concilio Vaticano II:

«Le sue grandi ricognizioni tematiche sono sempre impreziosite da sguardi rinnovati, guizzi creativi, proposte di soluzione in linea con le tendenze filosofiche contemporanee. I suoi libri hanno, a tutti gli effetti, una collocazione nella storia della teologia postconciliare».

In verità la sua riflessione si inscrive a pieno titolo nella creatività e vitalità della stagione postconciliare. Già in qualche modo consonante con figure che nel Vaticano II avevano viste realizzate le loro attese ecclesiali – tra gli altri Jacques Maritain, Giuseppe Dossetti, David Maria Turoldo, Giorgio La Pira, figure di riferimento nella sua formazione e cultura -, Giordano Frosini ha fatto poi tesoro della lezione dei teologi che di quell’evento erano stati partecipi personalmente o idealmente: Marie-Dominique Chenu, Yves Congar, Hans Urs von Balthasar, Henri De Lubac, Bernhard Häring, sono nomi citatissimi nei suoi testi che elaborano e divulgano un volto nuovo di cristianesimo e di Chiesa.

Una Chiesa «mistero», «comunione», «missione», nell’ottica della Lumen Gentium; che non esiste per se stessa ma per una evangelizzazione che si traduca in un servizio all’uomo nella sua totalità, in opposizione a qualsiasi forma di schiavitù, spirituale-interiore e sociale-storica. La Chiesa è per Frosini depositaria di una «memoria pericolosa e liberatrice-redentiva dell’umanità […] coscienza critica dell’umanità durante tutto il suo percorso storico, capace di atteggiamento critico grazie al suo cammino escatologico» (Una Chiesa possibile, p. 199).
Una Chiesa pienamente compagna dell’umanità nella sua storia e insieme custode e nutrice del suo «desiderio di infinito», come recita il titolo di un altro suo libro (cfr. Desiderio di infinito. Il cristianesimo e le aspirazioni dell’uomo, EDB, 2001). Un titolo suggestivo, opportunamente ripreso anche nel contributo che gli è stato chiesto per i Linguaggi del divino 2018: «Desiderio di infinito tra neopaganesimo e “utopia cristiana”».

Mariangela Maraviglia




Come “funziona” la Liturgia?

Tu non hai bisogno della nostra lode,
ma per un dono del tuo amore ci chiami a renderti grazie;
i nostri inni di benedizione non accrescono la tua grandezza,
ma ci ottengono la grazia che ci salva, per Cristo nostro Signore.
( Messale Romano, Prefazio Comune IV)

Come funziona le liturgia?

È questa la domanda che abbiamo scelto per stimolare la riflessione, in attesa dell’incontro con Goffredo Boselli, Monaco della Comunità di Bose e liturgista.

La riflessione sul dato liturgico è oggi più che mai al centro del dibattito ecclesiale.
Nel tempo frammentato in cui l’uomo della post modernità preferisce il linguaggio segmentato del videoclip a quello articolato, progettuale ed armonico della sinfonia orchestrale, perché i riti?
Che valore hanno? Che concetto vogliono esprimere? Sono ancora vettori di un linguaggio che apre al dialogo tra l’umano e il divino?

Celebrare un rito è davvero celebrare l’Amore che vince la morte? È davvero realizzare ciò che permette all’umano di affacciarsi su ciò che non è mondo, che ci relaziona con l’Altro che non siamo noi, che ci catapulta in un altrove ed in un tempo altro, senza per questo catturare questa esperienza ed incatenarla nell’ideologia? È veramente anticipazione qui ed ora di ciò che sarà la nostra vita nella domenica senza tramonto, quando Dio sarà tutto in tutti?
La liturgia è ancora quell’Opus Dei a cui nulla va preposto, come ricorda San Benedetto, padre dei monaci d’occidente, nella sua Regola (RB n.43 §3)?

Cromazio, vescovo di Aquileia, in una sua omelia ricorda che «sebbene tale ufficio appaia esercitato per mezzo di uomini, l’azione tuttavia è di colui che è l’autore del dono ed è egli stesso a compiere ciò che ha istituito. Noi compiamo il rito, egli concede la grazia» ( sermone XV sulla lavanda dei piedi).

In una chiesa che guarda all’uomo nella sua integralità, che mette la persona al centro riconoscere il giusto posto alla liturgia nella nostra vita di fede è riconoscere innanzitutto che celebrare è lasciarsi fare dal rito stesso, perché nel rito si rinnova l’agire di Dio.
Noi compiamo il rito, egli concede la grazia… nell’agire liturgico esercitato dall’uomo, avviene il dono divino: la grazia ci conduce, attraverso i gesti e le parole, attraverso cose nuove e cose antiche, a realizzare la sinergia tra le opere dell’uomo fragili e limitate e l’opera di Dio, che è eterna.

Vivere il rito liturgico è allora davvero vivere la gratuità dei gesti d’amore fatti solo per Dio, come ci ricorda il Vangelo di Giovanni nella narrazione del gesto poetico e innamorato dell’unzione di Betania, per aprirsi alla bellezza del dono, al di là delle categorie e delle logiche mondane perché l’umano si apra al divino e la liturgia sia veramente “ la danza della Chiesa attorno a Cristo” (C. M. Martini).

Alessio Bartolini

L’incontro con Goffredo Boselli avrà luogo giovedì 18 ottobre alle 17.30 presso la sala Conferenze del Convento di San Domenico a Pistoia.

Goffredo Boselli è monaco di Bose. Dottore in teologia a l’Institut Catholique di Parigi, ha conseguito il Master in Storia delle religioni e antropologia religiosa presso l’Université Sorbonne Paris IV. Dal 2000 è responsabile della liturgia del Monastero di Bose e insegna liturgia presso il suo Studium. In qualità di esperto, dal 2003 collabora stabilmente con la Commissione Episcopale per la Liturgia della Conferenza Episcopale Italiana. Il suo volume Il senso spirituale della liturgia (Qiqajon, 2011), edito negli Stati Uniti da Liturgical Press, ha vinto l’Excellence in Publishing Awards 2015 della Association of Catholic Publishers. Presso Edizioni San Paolo ha pubblicato, insieme con Enzo Bianchi, Il Vangelo celebrato (2017).




Il vocabolario originario per “rinascere dall’alto”: «luce»

Abbiamo chiesto ad alcuni giovani di proporre una riflessione sulle parole chiave del dialogo tra Gesù a Nicodemo. Un brano, contenuto nel terzo capitolo del Vangelo di Giovanni, in cui è possibile isolare un piccolo “vocabolario” di “spiritualità” da cui è stato preso spunto per le tematiche discusse nell’edizione 2018 de “i Linguaggi del divino – Rinascere dall’alto”.

Alice Peloni (16 anni), giovane studente liceale propone la sua riflessione su: «Luce».

LUCE

Dio disse: «sia luce!». E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre.
Fu tutto così semplice. Così naturale. Con l’impercettibilità di un battito di ali di farfalla, Dio si era circondato di luce e l’aveva separata dal buio. Non si era neanche chiesto perché: la luce era cosa buona, e dunque fu. Si sarebbe alternata alle tenebre, tra giorno e notte, tra sole e luna, aldilà dello spazio e del tempo. Sarebbe esistita nell’infinità dei secoli. Per sempre.

A volte vorrei trovarmi di fronte a Dio. Piazzarmi davanti a lui e, con le mani sui fianchi, guardarlo e dirgli che non è vero. Che la luce non esiste per tutti. Che per quei padri di famiglia ritrovati impiccati dopo essere stati licenziati, con il volto cianotico e le lacrime ai lati degli occhi, per quelle persone che ogni giorno maledicono di essere nati e vivono nel dolore, per quel giudice che decise di staccare la spina per la ventilazione artificiale a Charlie Gard (il piccolo affetto dalla sindrome di deplezione del DNA mitocondriale), convinto che fosse in condizioni troppo gravi per aver diritto di vivere, non c’era luce. È esistito solo buio, una selva infinita di oscurità in cui perdersi senza trovare via di uscita. La luce non nasce dal nulla, né in un giorno. Ci vuole grande forza di volontà per accoglierla nella propria vita. È molto più facile rimanere seduti, al buio. Lasciare che il nero ricopra tutto e ci circondi di dolore e sofferenza. Non c’è condizione più confortevole del dolore. Basta lasciarsi sommergere e abbandonarsi, mentre la vita si allontana. La luce, invece, non è come il buio: non è disposta a entrare negli occhi di chi non fa nulla per accoglierla.

In verità, non vi è luce, finchè non si sceglie di vederla. Dipende tutto da quanto siamo disposti a cambiare, ad andare avanti, a non lasciare che le difficoltà della vita gettino un velo di ombra sulla nostra esistenza. Bisogna rialzarsi, asciugarsi le lacrime e andare avanti. E coloro che, lasciandosi sprofondare nel dolore, invidiano chi porta il sorriso sulle labbra, non sanno quanto ha dovuto lottare per conquistarselo. Sono questi i piccoli guerrieri di tutti i giorni, che, con i calli sulle mani, lottano per non lasciare che le tenebre eclissino la luce. Perché la vita è un dono di Dio, e non merita di essere avvolta dal buio.

Alice Peloni

Miriam Attucci (24 anni), giovane capo scout Agesci, propone la sua riflessione su: «Luce».

Luce …

Che cos’è la luce? Luce è tutto ciò che ti permette di “vedere”, è ciò che ti permette di aprire il cuore.
Ma lo devi volere. Come dice la canzone S.U.N.S.H.I.N.E. : «luce, tu curi i mali di chi lo vuole, ti arrampichi all’orizzonte, fai scavalcare il sole».
Essa non può esserti di aiuto in nessun modo se i tuoi occhi sono chiusi. Scegliamo le tenebre, perché, anche se fa male, è più facile. Aprire gli occhi fa paura, ma una paura bestia, una paura che ti fa restare nel tuo angolino al buio. Che è comodo e doloroso, come un divano di aghi.

Ma poi -accade- si accende una luce in te e per la prima volta, ti guardi e ti osservi dentro. Prendi coscienza di ciò che sei e ti rendi conto, che fino ad ora, hai avuto paura della “tua” luce e non di quella che sta fuori dalle tue palpebre. La fiammella che si è accesa ha bisogno di ossigeno, aria, deve respirare, …vuoi respirare!

Quindi, scegli: non c’è più timore, apri gli occhi ed è uno spettacolo abbagliante il mondo che ora sei pronto a conoscere. Tutto è luminoso come te, ora che comprendi con tenerezza ed accetti anche i mostri che prima si muovevano nel buio. Nel tuo buio.

La luce ti guiderà se glielo permetterai, se ti fiderai, se ti affiderai. Siamo tutti un po’ strani, singolari, ma che dolcezza in tutto questo, con la comprensione il male scompare, con la luce il buio va via … ma quante sfide da affrontare, prima di poter volare. Ed è così facile cadere e chiudere gli occhi di nuovo, magari pensi, «solo per un po’, poi li riapro», ma non accetti di star male e questo fa sì che i tuoi occhi restino serrati.
Quando accade, guardati con la luce dell’amore, ascoltati e saprai sciogliere i nodi. Non temere di risplendere, sentiti libero di farlo e così … piano, piano, la tua libertà, libererà anche gli altri.

Miriam Attucci




Con Basilio Petrà sulle vie dello Spirito

Venerdì 19 ottobre alle ore 17.30 presso il convento di san Francesco la sua relazione dal titolo: “Cos’è la vita nello Spirito?”

Don Basilio Petrà è prete della diocesi di Prato. È da quasi quarant’anni docente di teologia morale nello Studio Teologico Fiorentino, divenuto poi Facoltà Teologica dell’Italia Centrale: dal 2017 ne è preside. È stato presidente dell’ATISM (Associazione Teologica Italiana per lo Studio della Morale).

Insegna anche a Roma, presso l’Accademia Alfonsiana e presso il Pontificio Istituto Orientale: due istituzioni accademiche collocate sul Palatino, non lontane dalla basilica di Santa Maria Maggiore; istituzioni che anche simbolicamente riuniscono a breve distanza il profilo biografico e intellettuale di Petrà, l’interesse, cioè, per la morale e l’ispirazione orientale del suo pensiero. Petrà, infatti, è presbitero cattolico di rito latino, ma è di origine greca; essendo però nato ad Arezzo e avendo abitato fin da piccolo nel Mugello, a Firenze e poi a Prato.

Coerentemente a questa ispirazione, la sua attenzione si è volta ora al mondo dell’ecumenismo, ora alla teologia orientale sui sacramenti, ora al diritto delle Chiese orientali, ora ad alcuni autori greci e russi. Questa presenza del riferimento all’Oriente cristiano è come una costante sempre presente nel suo pensiero, uno sfondo nei suoi articoli e libri, un punto di vista che lo conduce a leggere la teologia (morale o dogmatica che sia) con altri accenti, altre problematiche, altre domande rispetto a quelle abituali alla teologia occidentale.

Questo punto di vista diverso lo ha ad esempio condotto ad affrontare – con un’attenzione rinnovata e illuminata dagli sviluppi della teologia orientale – ora il ministero ordinato, ora le persone divorziate e risposate; ben prima che nella Chiesa quest’ultimo tema venisse sollevato ai massimi livelli con il Sinodo dei vescovi convocato dal papa a discutere sulla famiglia tra il 2014 e il 2015.

Cos’è la vita nello Spirito?” è il titolo del suo intervento a “I linguaggi del divino” 2018: già nel titolo risuonano il riferimento all’azione dello Spirito nell’uomo, alla sua trasformazione, alla sua progressiva conformazione a Dio. Un linguaggio che non si ha difficoltà a riconoscere segnato dalla cifra pneumatologica e divinizzante tipica della teologia e della spiritualità orientali.

Don Francesco Vermigli (Facoltà teologica dell’Italia Centrale)




Sulle vie dello “Spirito” con Basilio Petrà

Venerdì 19 ottobre alle ore 17.30 presso il convento di san Francesco la sua relazione dal titolo: “Cos’è la vita nello Spirito?”

Don Basilio Petrà è prete della diocesi di Prato. È da quasi quarant’anni docente di teologia morale nello Studio Teologico Fiorentino, divenuto poi Facoltà Teologica dell’Italia Centrale: dal 2017 ne è preside. È stato presidente dell’ATISM (Associazione Teologica Italiana per lo Studio della Morale).

Insegna anche a Roma, presso l’Accademia Alfonsiana e presso il Pontificio Istituto Orientale: due istituzioni accademiche collocate sul Palatino, non lontane dalla basilica di Santa Maria Maggiore; istituzioni che anche simbolicamente riuniscono a breve distanza il profilo biografico e intellettuale di Petrà, l’interesse, cioè, per la morale e l’ispirazione orientale del suo pensiero. Petrà, infatti, è presbitero cattolico di rito latino, ma è di origine greca; essendo però nato ad Arezzo e avendo abitato fin da piccolo nel Mugello, a Firenze e poi a Prato.

Coerentemente a questa ispirazione, la sua attenzione si è volta ora al mondo dell’ecumenismo, ora alla teologia orientale sui sacramenti, ora al diritto delle Chiese orientali, ora ad alcuni autori greci e russi. Questa presenza del riferimento all’Oriente cristiano è come una costante sempre presente nel suo pensiero, uno sfondo nei suoi articoli e libri, un punto di vista che lo conduce a leggere la teologia (morale o dogmatica che sia) con altri accenti, altre problematiche, altre domande rispetto a quelle abituali alla teologia occidentale.

Questo punto di vista diverso lo ha ad esempio condotto ad affrontare – con un’attenzione rinnovata e illuminata dagli sviluppi della teologia orientale – ora il ministero ordinato, ora le persone divorziate e risposate; ben prima che nella Chiesa quest’ultimo tema venisse sollevato ai massimi livelli con il Sinodo dei vescovi convocato dal papa a discutere sulla famiglia tra il 2014 e il 2015.

Cos’è la vita nello Spirito?” è il titolo del suo intervento a “I linguaggi del divino” 2018: già nel titolo risuonano il riferimento all’azione dello Spirito nell’uomo, alla sua trasformazione, alla sua progressiva conformazione a Dio. Un linguaggio che non si ha difficoltà a riconoscere segnato dalla cifra pneumatologica e divinizzante tipica della teologia e della spiritualità orientali.

Don Francesco Vermigli (Facoltà teologica dell’Italia Centrale)




Mons. Tardelli: «una sinfonica costellazione di spunti di riflessione»

Pubblichiamo l’intervento di Mons. Tardelli pronunciato in  occasione dell’apertura della rassegna teologica “i linguaggi del divino”, venerdì 5 ottobre presso il Battistero di San Giovanni in Corte.

Discorso in apertura della rassegna teologica (5 ottobre 2018)

Con stasera inizia la II° edizione de’ “I linguaggi del divino”. In realtà, si tratta della XXXI edizione della storica “settimana teologica” pistoiese, perla preziosa della nostra chiesa. Dopo l’edizione straordinaria 2017, che celebrava il trentennale della sua istituzione, all’interno dell’anno in cui Pistoia è stata capitale italiana della cultura, riprendiamo adesso il cammino per così dire “ordinario” ma con importanti novità. A Dio piacendo, continueremo anche negli anni prossimi, sempre nel mese di ottobre.

Con l’anno scorso sono state apportate diverse novità che in gran parte ritroviamo nell’edizione 2018. Credo che ce ne fosse bisogno, per non perdere nell’abitudine il molto di buono che era stato fatto e insieme per aggiornarci ai tempi nuovi, complessi, liquidi, difficili, contraddittori ma anche ricchi di opportunità e nuove sfide. C’è oggi necessità più che mai di darsi tempo per ascoltare e per riflettere, ma anche per spaziare su orizzonti larghi che coinvolgano non solo la mente ma anche il cuore, la persona nel suo complesso. La formula adottata l’anno scorso ha avuto successo; è piaciuta; è stata molto partecipata, a volte di più a volte di meno, ma sempre a un buon livello. Abbiamo portato la riflessione in vari luoghi della città, unendo il pensiero che nutre la mente alla contemplazione del bello che arricchisce straordinariamente la nostra città e testimonia della fecondità della fede cristiana.. Abbiamo poi corredato la rassegna teologica di qualche altro appuntamento di variegata forma espressiva. Insomma, siamo rimasti molto soddisfatti. Voglio qui ringraziare i tanti che hanno collaborato a pensare, impostare e organizzare “I linguaggi del divino” nella edizione del trentennale. L’apporto è continuato anche per l’edizione di quest’anno. Un apporto corale che ha dato i suoi buoni frutti, permettendo a mio parere di offrire davvero un bel percorso e di qualità, sia per il tema individuato che per i relatori, come per gli appuntamenti di contorno allestiti. Quest’anno, pur in un tempo più contenuto, solo il mese di ottobre cioè, abbiamo pensato di proseguire con la formula dell’anno scorso.

L’obiettivo che si prefigge questa rassegna teologica non è tanto quello di dettare una “linea” teologica e pastorale alla diocesi o di svolgere un tema “accademico” distante dalla vita. Piuttosto quello di fornire una sinfonica costellazione di spunti di riflessione teologica, a partire dal vissuto esistenziale delle persone, dalle attese, dai bisogni, dalle ansie di noi uomini e donne del nostro tempo; ripercorrendo le domande che stanno alla base del vivere e sulle quali si innesta la proposta cristiana. L’intento è quello di offrire uno “spazio” non soltanto fisico, ma intellettuale e spirituale a quel “quaerere Deum” , quel movimento di ricerca di Dio, suscitato dallo stesso Spirito Santo, che è l’anima della edificazione di una città umana a misura d’uomo e insieme aperta verso l’infinito, come ebbe a dire Papa Benedetto XVI° in una memorabile lezione sul monachesimo e l’Europa nella scuola dei Bernardins a Parigi qualche anno fa.

Vorrei spendere ora qualche breve parola sul tema de “I linguaggi del divino di quest’anno”: rinascere dall’alto. Un tema che si riallaccia a quello degli orientamenti pastorali diocesani che ci siamo dati nel triennio che sta per concludersi. Orientamenti che – come ben sapete – portano significativamente il titolo “Sulle ali dello Spirito. Il padre, i poveri, la comunità fraterna e missionaria”. Le “ali dello Spirito” sono quelle che appunto ci fanno rinascere dall’alto e ci conducono in alto verso la nostra piena dignità di figli di Dio, coeredi con Cristo del Regno dei cieli.

Rinascere dall’alto. Sono le parole che Gesù rivolge a Nicodemo quando quest’uomo, un fariseo, va da lui di notte. Lo muove la curiosità e forse una certa inquietudine interiore. Inizia un dialogo nel quale Nicodemo è per così dire “costretto” a entrare in una dimensione diversa da quella dalla quale è partito. È un uomo invecchiato, Nicodemo, ma non è solo una questione d’età. C’è un indurimento che vuol dire chiusura, rinuncia alla ricerca, roccaforte, sicurezze posticce. Nel colloquio con quest’uomo, Gesù, secondo la narrazione giovannea, richiama parole che hanno il sapore di un vocabolario fondamentale della vera vita, quella che rinasce sempre e non muore. Parole ‘originarie’, che fanno parte della vicenda dell’uomo, ma che – allo stesso tempo – assumono una densità sorprendente. «Rinascere», «Dall’alto», «Lo Spirito». La vita secondo lo Spirito è una nuova vita, quella dei redenti, dai battezzati innestati in Cristo. Una nuova vita che cerca, desidera altro e si avvia su cammini diversi da quelli del mondo e della “carne”. «Carne». Ecco un’altra parola chiave. L’edizione dei linguaggi del divino 2018 intende prendere sul serio questo vocabolario.

Mi piace qui richiamare le parole di Papa Francesco, nella recente Esortazione apostolica “Gaudete et Exultate”. Un documento a mio parere ben presto passato nel dimenticatoio, tant’è che non se ne sente quasi più parlare. Testimonianza evidente della selettività con lui i mezzi di comunicazione approcciano Papa Francesco, la sua persona e il suo insegnamento. Cosa che non gli rende senz’altro un buon servizio. Dice appunto Papa Francesco al n. 15 della “Gaudete et exultate”, rivolgendosi a ciascuno di noi personalmente: «Lascia che la grazia del tuo Battesimo fruttifichi in un cammino di santità. Lascia che tutto sia aperto a Dio e a tal fine scegli Lui, scegli Dio sempre di nuovo. Non ti scoraggiare, perché hai la forza dello Spirito Santo affinché sia possibile, e la santità, in fondo, è il frutto dello Spirito Santo nella tua vita (cfr Gal 5,22-23). Quando senti la tentazione di invischiarti nella tua debolezza, alza gli occhi al Crocifisso e digli: “Signore, io sono un poveretto, ma tu puoi compiere il miracolo di rendermi un poco migliore”. Nella Chiesa, santa e composta da peccatori, troverai tutto ciò di cui hai bisogno per crescere verso la santità. Il Signore l’ha colmata di doni con la Parola, i Sacramenti, i santuari, la vita delle comunità, la testimonianza dei santi, e una multiforme bellezza che procede dall’amore del Signore, “come una sposa si adorna di gioielli” (Is 61,10)». E ancora Papa Francesco al n. 21 della stessa Esortazione apostolica: «Il disegno del Padre è Cristo, e noi in Lui. In definitiva, è Cristo che ama in noi, perché “la santità non è altro che la carità pienamente vissuta”. Pertanto, “la misura della santità è data dalla statura che Cristo raggiunge in noi, da quanto, con la forza dello Spirito Santo, modelliamo tutta la nostra vita sulla sua”. Così, ciascun santo è un messaggio che lo Spirito Santo trae dalla ricchezza di Gesù Cristo e dona al suo popolo».

Ecco, approfondire queste cose; percepirne la corrispondenza con le inquietudini e i desideri profondi del nostro cuore; imparare a sognare e a costruire un mondo dove si rinasce dall’alto ogni giorno e si è capaci di incontrarci nella novità dell’amore: questa è la proposta che si dipana con una pluralità di prospettive contenuta nel percorso de “I linguaggi del divino” di quest’anno. E abbiamo scelto di iniziare proprio qui, in questo battistero di San Giovanni in corte. Terminato nel 1361, ci son voluti quasi sessant’anni per costruirlo ed è l’ultimo degli antichi battisteri monumentali presenti in diverse città italiane. Conserva ancora questa magnifica vasca battesimale, segno palese della rinascita dall’acqua e dallo Spirito. C’era forse luogo più significativo e bello di questo battistero per parlare di “rinascita dall’alto”? Un luogo simbolo, proprio della rinascita dall’alto ad opera dello Spirito. Luogo che si erge al centro della città e va su in alto, quasi ad indicare la necessità per la città stessa di rinascere ogni giorno dall’alto, per essere città a misura e degna dell’uomo?

Ancora un’ultima parola per dire grazie all’Abate di San Minato al Monte che ha accettato di venire tra noi, l’abate Bernardo. Lo seguiamo con affetto e con attenzione mentre da quell’abbazia millenaria sopra Firenze si spande una luce di bellezza, di spiritualità, di cultura e di fede che è diventata sempre più punto di riferimento per tante persone, credenti e non, in ricerca della verità e della pace. È una gioia averlo tra noi e lo ringraziamo davvero di cuore.

+ Fausto Tardelli, vescovo

(foto di Mariangela Montanari)




Il vocabolario originario per “rinascere dall’alto”: «rinascere»

Abbiamo chiesto ad alcuni giovani di proporre una riflessione sulle parole chiave del dialogo tra Gesù a Nicodemo. Un brano, contenuto nel terzo capitolo del Vangelo di Giovanni, in cui è possibile isolare un piccolo “vocabolario” di “spiritualità” da cui è stato preso spunto per le tematiche discusse nell’edizione 2018 de “i Linguaggi del divino – Rinascere dall’alto”.

Alberto Perticone (23 anni), giovane studente universitario, propone la sua riflessione su: «Rinascere».

Rinascere dal dolore

Pensando alla rinascita, viene spontaneo soffermarsi su tutti i momenti in cui abbiamo dovuto riprendere in mano le redini dopo una sconfitta personale, un insuccesso lavorativo, un evento traumatico legato alla nostra salute o a quella di una persona cara. Senza scadere nel pessimismo, ci si accorge come difficilmente i momenti felici ci conducono ad una rinascita. Possono portarci ad intraprendere delle scelte maturate precedentemente, ci spingono a rincorrere sogni e vocazioni maturate con ponderazione e, allo stesso tempo, con il vivido slancio di chi con entusiasmo intraprende un cammino nuovo, tuttavia non possono considerarsi rinascite, giacché per rinascere, occorre innanzitutto morire.

Nei momenti difficili rintraccio le scintille che muovono al riscatto. Dunque, rimane da chiedersi cosa sia dolore e cosa sia rinascita, senza la pretesa di dare risposte accademiche, ma semplicemente derivare dall’esperienza comune delle chiavi di lettura per comprendere meglio il tema. La morte prematura di una persona cara, genitore o figlio, la disabilità sopraggiunta per un incidente o per una malattia, l’incapacità fisica o mentale di ribellarsi ad un demone che ci impedisce di vivere una vita “normale”, sono esempi di quotidiano dolore, fertile terreno per una rinascita radicale.

L’uomo anela alla felicità e vivendo esperienze simili, dopo un primo periodo di abbandono, si scuote cercando con ogni mezzo di uscire dall’incubo dell’accaduto. Numerose sono le persone pubbliche che hanno dimostrato tutto il coraggio di cambiare vita, chi scrive con gli arti inferiori dopo aver perso l’uso delle mani o chi partecipa alle para-olimpiadi insegnandoci in mondovisione che il suo podio non riguarda solo lo sport. Eppure questi sono personaggi pubblici, ammirati e pubblicizzati, ma di persone colpite da esperienze dolorose ce ne sono molte di più attorno a noi. Fin qui di rinascita ce n’è ben poca e la tentazione di essere padroni del proprio fine vita è forte, sollevando questioni etiche di non poco conto. Torna in mente l’Ultimo canto di Saffo: «Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso/ Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo/ Il ciel mi fosse e di fortuna il volto?/ In che peccai bambina[…]?». Ci si domanda, cioè, se siamo solo numeri, se rappresentiamo soltanto quella piccola, ma atrocemente consistente percentuale di chi è stato punito, di chi ha dovuto subire tutto senza apparente ragione. Ci si domanda qual è il peccato che ci ha portato a dover soffrire al posto degli altri, per gli altri, scontando una colpa forse commessa da nessuno o forse dai padri; come se trovarne la causa potesse in minima parte darci conforto.

La rinascita parte dalla consapevolezza che di vita terrena non ce n’è una sola. La vita celeste ci accomuna resuscitandoci nel corpo e nello spirito, ma quella terrena ha mille sfaccettature e, come scriveva Flaubert, le persone felici sono tutte uguali, mentre chi soffre ha sempre una storia diversa da raccontare. Ricostruire la propria quotidianità per se stesso, per gli altri o per Qualcuno porta alla rinascita. Chi subisce una grave menomazione fisica, per esempio, rinasce anche nel corpo; con quel che ha, deve ripartire da capo e costruire una vita che non sarà affatto uguale alla vita di prima, ma conserverà sempre buone ragioni e stimoli per essere vissuta anche con quel poco che fisicamente è rimasto. Oppure si pensi alle persone che nelle comunità rinascono dopo vite di abusi e dipendenze, pronti a ripartire col solito corpo, ma con nuove prospettive.

Dunque, mi sembra che la rinascita sia l’occasione che Qualcuno ci ha dato di non sprecare il dono della vita, di reinventarlo anche in un’epoca economica in cui ciò che è logoro viene scartato e non aggiustato. La conservazione della pietra scartata dal costruttore, però, non serve a niente se non viene ripensata come pietra d’angolo delle nostre comunità. Se la medicina tiene in vita gli ammalati senza che la società li reintegri, stiamo riducendo la rinascita ad un tagliando del nostro corpo. Rinascere non è finire il carburante e rifornirsi alla pompa, è cambiare mezzo di trasporto; rappresenta la fatica di raggiungere la stessa destinazione degli altri, negli stessi tempi possibilmente, ma con l’auto ormai in panne, sforzandoci di far fruttare quello che è rimasto. Infine, per sollevare il morale da una trattazione vagamente tetra, vorrei estendere a tutti l’augurio di poter privatamente coltivare verso il prossimo la compassione, perché possiamo tutti rinascere, sensibilizzandoci attraverso le esperienze dolorose di chi ci circonda.

Alberto Perticone




Il vocabolario originario per “rinascere dall’alto”: «Carne»

Abbiamo chiesto ad alcuni giovani di proporre una riflessione sulle parole chiave del dialogo tra Gesù a Nicodemo. Un brano, contenuto nel terzo capitolo del Vangelo di Giovanni, in cui è possibile isolare un piccolo “vocabolario” di “spiritualità” da cui è stato preso spunto per le tematiche discusse nell’edizione 2018 de “i Linguaggi del divino – Rinascere dall’alto”.

Sofia Bartone, 18 anni propone la sua riflessione su: «Carne»

«Carne»

L’uomo è Dio, ma solo in potenza. Difatti esiste una grande e fondamentale differenza tra i due: la carne del corpo. Eppure San Tommaso sottolinea che nella nostra stretta appartenenza a Dio risiede la massima distanza tra noi e Lui. Il suo ragionamento si applica al concetto di essere: per l’uomo si tratta di una qualità a cui partecipa, mentre per quanto concerne Dio, Egli è l’essere stesso.

Tale concetto di trascendenza è anche ciò che più avvicina il nostro corpo a quello di Gesù, incarnazione di Dio, e allo stesso tempo ciò che più lo allontana. Per noi la carne è un limite, non a caso gli antichi greci associavano il suono di σωμα (corpo) a quello di σημα (tomba). In questo modo i nostri antenati spiegavano, attraverso una chiara somiglianza di suono, che la limitazione dell’uomo è l’involucro dell’anima, a causa del quale siamo tutti legati ad una dimensione terrena.

La carne dice la nostra condanna ad essere per sempre limitati e un legame inscindibile con il carattere bestiale, che difatti a volte affiora in noi e prende il sopravvento sulla ragione. Quando la razionalità viene meno, non siamo in grado di giudicare fino a che punto ci è concesso arrivare senza sfociare nell’ingiustizia e nel peccato. Sono proprio tutti i bisogni che scaturiscono dalla nostra componente “corporea” a trarci in inganno. Ad esempio la lussuria, la gola, la pigrizia … sono tutti eccessi legati all’esigenza di assuefare le pulsioni del corpo che non percepisce limiti. Sempre dall’interno di noi scaturiscono tutte le cose che ci mettono in difficoltà, ci tentano e ci inducono al peccato. Siamo noi che influenzati dal nostro carattere terreno portiamo nel mondo creato da Dio avidità, violenza, tristezza e così via.

Perché allora anche Cristo non è stato colto da tutte queste tensioni che in noi si traducono come debolezze della carne? E come è possibile che, invece, la sua stessa carne sia diventata pane per tutti noi? Proprio questa diversità nell’uguaglianza è ciò che rende trascendente l’entità di Cristo alla nostra semplice carne fino a rendere il suo corpo salvifico. Dunque per poter abbracciare la nostra scintilla divina presente in noi in atto, è necessario alimentarla attraverso il pane spirituale dell’Eucarestia. Una volta giunto il momento della riconciliazione finale a Lui, sarà come nascere una seconda volta, ma, a differenza della prima, senza limiti.




A Pistoia Ermes Ronchi, fine e appassionato ‘servo’ della Parola

La sua relazione, dal titolo “le nude domande del Vangelo”, avrà luogo nel convento di San Domenico venerdì 12 alle 17.30.

Padre Ermes Ronchi è nato nel 1947 a Racchiuso di Attimis (Udine) ed è frate dell’Ordine dei Servi di Santa Maria. Ordinato presbitero nel 1973, è licenziato in teologia a Roma (Facoltà teologica Marianum) e laureato in Scienze religiose e in antropologia a Parigi (Institut catholique della Sorbona). Ha iniziato il suo ministero negli anni settanta dando avvio, insieme ad alcuni confratelli, a una comunità sperimentale di vita, preghiera, lavoro in provincia di Vicenza, un periodo che ricorda come «ricco di vitalità ed energia». Dal 1980 al 1991 ha vissuto nella famiglia conventuale dell’Annunciata di Rovato, splendido complesso quattrocentesco dove ha animato iniziative di spiritualità, cultura, impegno sociale. Ha iniziato in quegli anni un ministero di predicazione e di scrittura, che lo ha fatto conoscere e apprezzare da gruppi, parrocchie, comunità in molte parti d’Italia.

Dopo un periodo nella comunità dei Servi di Maria di Verona, dal 1994 al 2016 ha vissuto, ricoprendo diversi incarichi, nel convento di San Carlo al Corso di Milano. In quegli anni ha diretto anche lo storico Centro culturale Corsia dei Servi, fondato dal predicatore e poeta padre David Maria Turoldo (1916-1992), di cui ama ricordare nelle sue conversazioni molti versi, tra i quali: «Scegliere sempre l’umano contro il disumano»; «Non altro vi è di più caro nel mondo che saper piangere il pianto dell’uomo». Un verso di Turoldo dà anche il titolo a uno dei suoi ultimi libri (non li ricordo tutti), Mia Chiesa amata e infedele (Messaggero, 2018), in cui presenta la visione del cristianesimo di papa Francesco.

Nel 2009 è stato invitato a tenere su Raiuno la rubrica Le ragioni della speranza, da lui condotta associando al commento al Vangelo la visita a diverse realtà di vita ecclesiale e di ricerca spirituale presenti in Italia (cfr. i volumi Le ragioni della speranza, scritti con Marina Marcolini, anno A B C, Paoline, 2012 2013 2014). Una esperienza che è continuata fino al 2014, nel corso della quale ha ospitato anche la Fraternità di Romena, con cui aveva già avviato un fruttuoso rapporto di collaborazione (cfr. Una fede nuda; Il Vangelo della terra, con Marina Marcolini, Romena, 2014 e 2018, ma i titoli sono numerosi).

Dal 2016 vive nel convento di Santa Maria del Cengio a Isola Vicentina (Vicenza) dove, con un gruppo di laici, promuove percorsi di riflessione all’insegna della ricerca di Dio e, insieme, dell’attenzione alla bellezza del paesaggio, di un’economia che dia spazio alla solidarietà e alla sostenibilità.
È docente di estetica teologica e iconografia presso la Facoltà teologica Marianum di Roma.

Negli anni della sua formazione ha ascoltato il confratello padre Giovanni Vannucci (1913-1984) – pistoiese di origine e fondatore dell’Eremo delle Stinche – ed è stato segnato dalla sua lezione. Quell’incontro, ha dichiarato, gli ha cambiato la vita: «[…] ha reincantato la vita per me. Reincantare la vita significa farti capire che sei all’interno di un mondo come vertice di una scala di esseri, come progetto incompiuto. Reincantare la vita per dirti che in ogni essere, in ogni persona, in ogni creatura, la più banale, la più povera c’è lo spirito, c’è Dio […] Io feci con padre Giovanni l’esperienza dei discepoli di Emmaus: “non ci bruciava forse il cuore per strada mentre lui ci spiegava le Scritture dicevano i due discepoli…” e in quell’occasione sentii accendersi il cuore».
Dice ancora di sé: «Mi sento servo, ministro al servizio della Parola: è la passione, è il richiamo, la fonte, la roccia, il nido della mia vita. Annunciare la Parola, scrivere della Parola, tradurla nel linguaggio di oggi sono le pietre miliari del mio cammino quotidiano».

Ad annunciare la parola è stato chiamato, nel 2016, da papa Francesco, come predicatore degli esercizi spirituali di Quaresima per il papa e la curia romana: da questo impegno è nato il volume Le nude domande del Vangelo (San Paolo, 2016) che dà il titolo anche all’incontro che padre Ermes Ronchi terrà a Pistoia.

(Fonti: Intervista a cura della Cooperativa cattolico democratica di cultura di Brescia ; Intervista E Dio divenne finalmente bello, in Il sorriso, giornalino della Fraternità di Romena, n. 2-3, 2005, pp. 20-21)

Mariangela Maraviglia




Voci dal silenzio: viaggio tra gli eremiti in Italia

Un film documentario per scoprire e farsi interrogare dalla scelta radicale di uomini e donne del nostro tempo.

Giovedì 11 ottobre alle ore 21 nella sala conferenze del convento di San Domenico avrà luogo la proiezione di «voci dal silenzio», un documentario sugli eremiti in Italia, diretto da Joshua Wahlen e Alessandro Seidita. «Un viaggio dal nord al sud dell’ Italia per raccontare l’ esperienza eremitica. Storie di uomini e donne che cercano di recuperare il senso profondo di sè e della vita attraverso un percorso intimo e solitario».

IL PROGETTO
Il progetto nasce dall’incontro con Federico Tisa, fotografo torinese che nel 2014 attraversò l’Italia a piedi con l’intento di creare una relazione intima con gli eremiti e documentare fotograficamente una storia che pochi conoscono. Da quell’esperienza prese forma un reportage marcatamente espressivo e intenso, Visita Interiora Terrae. In uno spirito di piena collaborazione, ci siamo lasciati ispirare dalla sua esperienza per avviare un progetto filmico che avevamo a cuore da parecchi anni. Era infatti il 2010 quando a bordo di un vecchio camper attraversammo una prima volta l’Italia per approfondire le nostre conoscenze sull’esperienza ascetica.

A distanza di 8 anni abbiamo così deciso di rimetterci il viaggio per avviare le riprese di Voci dal Silenzio.

IL VIAGGIO
Siamo partiti senza alcuna sceneggiatura. Volevamo che a guidare questo nuovo film non ci fossero idee pregresse ma solo l’indicazione di una direzione, di un orizzonte, di un’inclinazione, perché filmare è per noi, prima di ogni altra cosa, intessere una relazione.

Le storie che abbiamo incontrato sono tutte caratterizzate da una profonda sobrietà : il cibo viene ricavato da piccoli orti o donato da qualche visitatore; l’acqua raccolta dalle sorgenti; la legna utilizzata per riscaldare le stanze e far luce sull’armonia e la cura racchiusa in quelle poche cose che abitano il luogo. Non c’era nessun superuomo o santone dai poteri taumaturgici ma una semplicità disarmante, una nudità che si esponeva al mondo con dolcezza e fiducia. Ed è in questo particolare modo di aderire alla vita che sembra racchiusa buona parte della forza delle figure incontrate.

L’eremita è una figura onnipresente nella storia dell’umanità. In ogni secolo ci sono stati uomini che hanno intrapreso una via solitaria all’interno dell’esperienza spirituale, che hanno messo in pratica gli insegnamenti dei gesti sacri, hanno seguito i passi dei profeti o la spinta di una voce interiore, attraversando il deserto, il è pellegrinaggio, l’isolamento e mirando alla coincidenza di teoria e pratica religiosa, di mondo terreno e ultraterreno.

Eppure la scelta del vivere in solitudine resta, agli occhi dei più, una decisione enigmatica e controversa, se non incomprensibile. Così ci siamo semplicemente chiesti: perché le storie degli eremiti interessano tanto? Quali sono le cose che suscitano la nostra reale attenzione? Il fatto che l’eremita viva senza soldi o senza elettricità? Che veda poca gente o nessuna? Che possa vivere facendo conto solo sulle proprie forze?

«Nel tentativo di trovare delle risposte abbiamo viaggiato per vie solitarie, spesso inospitali, in eremi distanti dalle voci del mondo, all’interno di luoghi caratterizzati dal silenzio e dal raccoglimento. Abbiamo ripreso il rapporto con la solitudine, il silenzio, i riti quotidiani, la preghiera, le esperienze estatiche. Ci siamo immersi all’interno delle singole storie, raccontandone il passato, la vocazione, i conflitti e le battaglie. Abbiamo così compreso quale fosse l’oggetto reale della nostra ricerca, e il trovarlo ha dato un chiaro significato a tutto il documentario».

La proiezione sarà introdotta dalla presentazione degli autori. L’ingresso è libero.