Sinodalità che decide. L’intervento di don Dianich

Una sintesi dell’intervento del teologo Dianich in vista del Sinodo Ripartire dalla centralità del popolo di Dio e dal sacerdozio battesimale

«Quando si parla di sinodalità scattano subito due pregiudizi. Il primo: promuovere la sinodalità non è espressione di una lotta di potere dentro la Chiesa? Il secondo: i carismi di cui si parla non rappresentano un’eccezione?» Rivolgendosi al clero pistoiese in occasione degli incontri di formazione sulla sinodalità don Severino Dianich, uno dei più noti teologi italiani, ha subito acceso l’attenzione di quanti erano collegati online per ascoltarlo.

«Partiamo dal secondo pregiudizio: i carismi non sono un’eccezione, sono espressione del dono della fede. Non c’è cristiano che non sia carismatico ». Per rispondere meglio e ribattere anche al primo pregiudizio occorre, spiega don Dianich, rivedere due temi di fondo dell’ecclesiologia. «Il primo è il concetto di popolo di Dio, come ce lo dà il Concilio Vaticano II; il secondo è il concetto di sacerdozio comune. Quanto al popolo di Dio va ricordato che è il soggetto della missione». «Quando si dice, “cosa ha detto e cosa fa la Chiesa?” non si dovrebbe pensare solo al Papa — spiega Dianich — ma a tutto il popolo di Dio». L’annuncio messianico è compito di ogni battezzato: «questo non è il diritto e dovere del vescovo o del prete, ma di ogni cristiano ». Il secondo punto riguarda il popolo sacerdotale. «Nel corpo sacerdotale che è il popolo di Dio si danno diversi carismi e ministeri ». Il Concilio «illustra alcuni ministeri propri dell’ufficio sacerdotale di Cristo consegnati a tutto il popolo cristiano; sono i cosiddetti tria munera (i “tre doni”): la comunicazione della fede (insegnare), la partecipazione attiva alla liturgia (santificare), la partecipazione alla organizzazione della vita della Chiesa (governare). Tre aspetti che possono assumere anche una forma istituzionale » ma, commenta Dianich, ancora oggi poco valorizzati.

Quali sono, dunque, le prospettive della sinodalità? «La partecipazione attiva dei fedeli alla missione della Chiesa si realizza nella situazione concreta in cui i fedeli vivono continuamente; non si svolge nei muri della parrocchia, ma là dove i fedeli operano e vivono». «La conclusione — spiega Dianich — viene da sè: sinodalità significa evitare che preti e vescovi debbano essere responsabili

di cose per cui non hanno carisma. Occorre ascoltare, valorizzare competenze ». Nella normativa canonica sono previste alcune istanze sinodali: il sinodo dei vescovi e quello diocesano, il collegio dei consultori e degli affari economici, i consigli pastorali parrocchiali. Strutture sinodali importanti, appunta il teologo ma “a responsabilità limitata”, perché hanno solo potere consultivo e il cammino insieme si interrompe nel momento della decisione. «Per questo — commenta — la gente ha disaffezione verso i nostri consigli; “Si ragiona, si parla e non si decide nulla”». Forse è il momento di osare un po’ di più, non per ribaltare logiche di potere, ma per meglio esprimere la ricchezza della vocazione battesimale. «È chiaro: questo chiede pazienza, allunga le cose, ma varrebbe la pena. Ritengo anche — spiega il teologo — che ci sia un altro elemento da tenere presente: l’autorità ecclesiastica non è ad omnia. Ci sono campi della vita della Chiesa in cui l’autorità del pastore è più libera e spazi in cui le competenze dei consiglieri laici sono sufficienti». «Abbiamo bisogno — ha concluso Dianich — di inventare qualcosa di fresco, di nuovo, perché il popolo cristiano sia davvero fecondo nel cammino della Chiesa».

Ugo Feraci