Solennità di San Giuseppe – Cecina, Livorno (20 marzo 2017)

Solennità di San Giuseppe
Cecina, Livorno (20 marzo 2017)

Un uomo silenzioso, Giuseppe. Nei vangeli non ci vengono mai riferite sue parole. Sembra non ne usasse molte. Di poche parole, egli è però concreto, attento ascoltatore di Dio, facitore della sua Parola. Nemmeno ci vien raccontato molto di lui nei vangeli.

Quello che però ci vien detto è estremamente significativo. I vangeli ci parlano della sua fede quando dovette affrontare la sorpresa di Maria, sua promessa sposa incinta. Lo troviamo acconto a Maria nel viaggio a Betlemme e al momento della nascita del bambino. I vangeli ci narrano ancora che per volere di Dio, Giuseppe condusse in Egitto con la sua sposa Gesù per proteggerlo dalla furia di Erode. Lo vediamo portare il bambino al tempio per la circoncisione. Poi ci vien detto che il bambino Gesù cresceva con lui e Maria a Nazaret, dove faceva il falegname. Quando Gesù ebbe 12 anni e si perse a Gerusalemme, con Maria lo cercò con grande dolore e lo ritrovò nel tempio tra i dottori. Poi più niente. Giuseppe sembra sparire del tutto dalla scena dei vangeli. Di lui non si parlerà più. Non sappiamo che cosa ne sia stato di lui, quando sia morto, per quale ragione, se abbia lasciato detto qualcosa a Maria e a Gesù.
Per questo sembrerebbe quasi una figura secondaria nel vangelo. Ma non è affatto così. Giuseppe è un grande, grandissimo uomo e uno straordinario santo.

Giustamente la Chiesa ha introdotto in ogni Messa, nella preghiera eucaristica, il ricordo di lui. Perché egli è un veramente un gigante della fede, della speranza e della carità. Il padre di cui tutti i figli avrebbero bisogno, lo sposo che ogni donna potrebbe augurarsi, il custode amoroso di ogni buona causa, il maestro da cui ogni discepolo del Signore dovrebbe imparare.

Vogliamo una chiara dimostrazione del valore di quest’uomo? Non occorrono molte parole. Giuseppe fu amato da Maria SS. che accettò di diventare sua sposa! Forse tante volte non ci pensiamo a questo fatto. Non ci facciamo debito caso. Pensiamo a Maria SS. e ne contempliamo la bellezza, la santità. La onoriamo come regina del cielo, Madre Immacolata di Gesù; assunta in cielo nella gloria; specchio di ogni virtù, la più alta, la più sublime, la più santa di tutte le creature. Non pensiamo però che la Madonna si è innamorata di Giuseppe; lo ha amato di un amore tenerissimo; ne è diventata la sposa; si è unita in matrimonio con Lui! Poteva forse Maria innamorarsi di un uomo senza valore? Avrebbe potuto la “piena di grazia” accettare di diventare la sposa di un uomo senza virtù? Se l’amore è fatto di stima, di apprezzamento, di trasporto, di fascino, ciò vuol dire che Maria SS.ma ha trovato in Giuseppe tutto questo ma soprattutto ha trovato in lui ciò che più conta in una persona e cioè la disponibilità a compiere la volontà del Signore; la fede e l’obbedienza al disegno d’amore di Dio sulla propria vita; la capacità di rinunciare al proprio io per mettersi al servizio dell’altro. Ecco dunque la dimostrazione più chiara della grandezza umana e di fede di San Giuseppe: essere stato scelto da Maria quale suo compagno di vita.

Allora, carissimi fratelli, amiamo anche noi quest’uomo e mostriamogli anche tutta la nostra riconoscenza. Si. Credo che gli dobbiamo anche tanta, tanta riconoscenza. Perché ha custodito con infinito amore, con grandissima premura, Maria e Gesù. Che avrebbe fatto Maria da sola? Come avrebbe potuto affrontare il disagio della nascita di Gesù, della fuga in Egitto, della vita di Nazaret. E cosa avrebbe potuto fare lo stesso Dio incarnato Gesù, piccolino e indifeso, bisognoso di tutto, se non avesse trovato un babbo che lo custodisse, lo crescesse nella fede di Israele, gli insegnasse un mestiere, lo istruisse sulle cose della vita.

Sì, dobbiamo essere grati infinitamente a Giuseppe perché ha custodito con tanta premura Maria e Gesù. E lo ha fatto anche per noi, perché noi tutti potessimo godere della presenza di Maria e in particolare del figlio unigenito del Padre Gesù.

Carissimi amici, davvero ringraziamo San Giuseppe ma cerchiamo anche di imparare da lui. Soprattutto due cose, direi: a obbedire con fede alla volontà di Dio e a operare il bene in concreto e nel silenzio. Sono le caratteristiche più belle di Giuseppe: un uomo di fede, che si fida di Dio, innanzitutto. Che non capisce a volte come stanno le cose, che a volte si tormenta perché non comprende. Non tutto gli è chiaro. Non tutto va come forse aveva pensato. Anche il suo matrimonio con Maria, il rapporto con questa giovane donna, forse nella sua testa non se l’era immaginato come poi si è realizzato. Eppure si fida di Dio. Si abbandona alla sua volontà. Con la stessa fede di Abramo va dove Dio gli indica e fa ciò che Dio gli chiede. Non recrimina. Non si lamenta. Accetta nella fede con gioia il suo compito e cammina nell’adempimento della sua missione. E poi, in secondo luogo, eccolo operare il bene in concreto e nel silenzio. Opera, agisce. Non chiacchiera. Mette in pratica, lavora, realizza. Sistema le cose, provvede alle necessità della famiglia di Nazaret. Custodisce con cura chi gli è stato affidato. E soprattutto, il bene lo fa nel silenzio. Non per essere ammirato. Non per destare ammirazione negli uomini. Lo fa e basta. Perché è bene. Perché è ciò che il Signore gli chiede. Non suona la grancasse e, terminato il suo compito, se ne va in punta di piedi. Lasciò questa terra sommessamente appena adempiuto il suo compito, accompagnato nella morte da una grande consolazione: la compagnia di Maria SS. e di Gesù, morendo tra le loro braccia.

Permettetemi ora che termini questa mia breve riflessione ricordando un uomo che di San Giuseppe ha portato sicuramente i tratti e che in qualche modo ne ha ripreso le sembianze: il Vescovo Mansueto, vostro indimenticato pastore per alcuni anni. Non ebbe una sua propria famiglia ma fu sposo premuroso e custode sapiente e fedele della chiesa volterrana che amò di un amore tenerissimo e appassionato; come amò e custodì nella prova, anche la chiesa pistoiese e infine la famiglia dell’Azione Cattolica.

Generato e cresciuto nella chiesa madre di Lucca dove respirò a pieni polmoni la fede di un popolo davvero credente, ha però ha affinato doti, capacità e senso ecclesiale innanzitutto nella chiesa volterrana, di cui divenne vescovo durante l’anno giubilare del 2000. Volterra rimarrà sempre nel suo cuore – e lo posso testimoniare personalmente –il suo primo dolcissimo amore: la chiesa dove imparò a essere padre e comprese per la prima volta che cosa significhi “custodire” la sposa di Cristo, la chiesa, attraverso l’esercizio del ministero episcopale. Volterra che era a lui carissima anche perché lì ha vissuto i suoi ultimi anni terreni la mamma Bruna.

Il vescovo Mansueto, pur dotato di una vivace intelligenza, del dono dello scrivere e del parlare, di un’ottima preparazione culturale e di un grande gusto per il bello, con la possibilità perciò di innalzarsi sopra la massa, ha voluto restare sempre un figlio del popolo, schivo e semplice, fino al termine della sua esistenza. La sua fede è stata sempre popolare e si è trovato perfettamente a suo agio con le espressioni della pietà della gente semplice. Persona estremamente sensibile, ha conosciuto il tormento dell’intelligenza, le domande che inquietano e il senso della caducità di tutte le cose, acutamente consapevole della nostra condizione di viandanti e pellegrini, del grigiore che avvolge normalmente la vita. Ma sapeva trasformare tutto questo in gioia piena di umanità, in bonaria e acuta ironia, nell’allegria dell’amicizia ricercata e coltivata. E chi lo incontrava percepiva lo spessore profondo della sua fede autentica, non sbandierata, sofferta e serena a un tempo e dava pace e sostegno.
Egli ha amato profondamente la Chiesa – lo voglio sottolineare – Una Chiesa che ha sognato bella e senza rughe ma che ha accettato pur nelle sue debolezze, miserie e contraddizioni. Ha continuato ad amarla senza riserve tutta la vita, questa Chiesa, così com’era e come gli si presentava di volta in volta; ha continuato ad amarla e ha insegnato ad amarla com’è non come la si vorrebbe, perché sempre comunque sposa di Cristo.

La malattia e la morte lo hanno trovato pronto, anche se i giorni del male che lo ha ghermito sono stati per lui una dura scuola che ha perfezionato la sua preparazione al dono della vita nel momento della morte. Posso testimoniare personalmente che ha affrontato nella luce della fede, i primi sintomi, poi la diagnosi terribile della malattia, poi l’operazione, la degenza in ospedale, l’affievolirsi delle forze, lo spegnersi di ogni speranza umana e infine la morte. Sempre ben consapevole della sua situazione, ha confidato nel Signore e il Signore lo ha sostenuto. E’ stato duramente provato, tra alti e bassi, piccole riprese e ricadute. Sempre sereno e con una grande pace nel cuore, affidato completamente a Gesù, pieno di amore per Lui e per le persone che sono passate attraverso la sua esistenza e che ha portato sempre con sé. Posso attestare di persona la sua fede rocciosa, la sua delicatezza d’animo, l’abbandono fiducioso e gioioso nelle mani del Signore. Credo e concludo che il vescovo Mansueto non solo sia stato ma sia ancora oggi per tutti noi, davvero un grande amico, un maestro e un testimone della gioia vera, quella del Vangelo.

+ Fausto Tardelli, vescovo




IV° venerdì di Quaresima 2017 anno A – Cattedrale (24 marzo 2017)

IV° venerdì di Quaresima 2017 anno A
Cattedrale

“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza e amerai il prossimo come te stesso”

Dopo che il Signore nel venerdì della prima stazione quaresimale ci aveva invitato a una giustizia superiore a quella dei farisei e degli scribi e dopo che nella scorsa stazione quaresimale in Sant’Andrea ci ha dato l’esempio di cosa intendesse con l’invito a superare la giustizia nell’amore anche verso i nemici, questa sera ce lo dice chiaramente anche a parole che cosa ci chiede: amare Dio con tutto il cuore e amare il prossimo come noi stessi. Non c’è comandamento più grande di questo.

L’insegnamento di Gesù viene a seguito dell’interrogazione da parte di uno scriba. Gesù risponde in modo singolare. Riporta in effetti qualcosa che è già presente nell’antica alleanza. Lo riconosce anche lo scriba. Non solo. Gesù inizia riportando quello che era in effetti il ben conosciuto comandamento fondamentale in Israele: quello shemà israel – ascolta Israele – col richiamo al Dio unico, che era ed è il ritornello giornaliero di ogni israelita. Gesù però mette insieme quasi a identificarli, il comandamento dell’amore verso Dio e quello verso il prossimo. E qui troviamo in fondo l’originalità dell’insegnamento di Gesù, che come saggio scriba sa tirar furi dal suo tesoro cose nuove e cose antiche, trasmettendoci la sapienza di Dio.

Messi insieme dal Signore Gesù, noi non possiamo perciò separare i due amori che sono un solo comandamento. Sembrerebbe ovvio ma purtroppo non è così e quindi dobbiamo convertirci, tutti, alla sapienza di Dio.

Troppe volte – forse poteva esser più vero nel passato che oggi – comunque troppe volte amare Dio ha voluto dire estraniarsi dalla storia, dimenticare i fratelli nel bisogno, non sporcarsi le mani nel soccorrere l’oppresso e lo scartato della società. Come è accaduto all’antico popolo di Israele, anche noi, nuovo popolo di Dio abbiamo a volte ridotto il culto a pratica religiosa alienante; abbiamo pensato di poter dare gloria a Dio senza la conversione del cuore che si apre al fratello. Pur trattando le cose sante che sono la verità dell’amore di Cristo per la salvezza degli uomini, le abbiamo però ridotte a “cose sacre”, vuoto ritualismo, sceneggiata senza anima, lode che diventa bestemmia del nome santo di Dio. Preghiera cioè che non ci cambia il cuore e la mente, che appaga soltanto i nostri sentimenti o la nostra sete di rassicurazione. Di Dio, tante volte abbiamo fatto un idolo a nostra misura, configurato sulle nostre sembianze. Sulla base dei presunti diritti di Dio, abbiamo finito per sacrificare le persone, schiacciandole sotto il peso di un Dio autoritario e vendicativo. Ci siamo mostrati pii e devoti, ma con le orecchie e gli occhi chiusi per non assumere le nostre responsabilità nella storia; per non vedere il volto concreto di Dio che si manifesta nei poveri e nei derelitti, come in ogni nostro fratello e sorella, qualsiasi sia la sua lingua, cultura o razza. Così è accaduto che le nostre chiese diventassero a volte come lo spazio del tempio antico che il Signore Gesù ha invece distrutto per identificarlo con se stesso, la sua carne, il suo cuore pieno d’amore. Da luogo dove sperimentare l’amore del Signore nella memoria del suo sacrificio che redime l’umanità, perchè tutta sia lode al Padre, abbiamo trasformate le nostre chiese in luoghi che esauriscono l’esperienza cristiana, appagano il nostro gusto estetico, detengono l’esclusività di un culto a Dio ridotto a cerimonia.

Ecco dunque: di fronte a tutto questo sta la parola del Signore che ci ricorda come il comandamento unico comprenda in se stesso anche l’amore del prossimo; la piena dedizione al fratello fino al dono stesso della vita, a partire da un ascolto attento e premuroso che è l’anima e la sostanza dell’autentico amore del prossimo; l’impegno per la trasformazione del mondo nel segno della giustizia e della pace.

Prendendo però con serietà l’insegnamento di Gesù, dobbiamo altresì parlare dell’altra, grossa tentazione che – forse oggi più di ieri – si fa costume e abitudine mentale. Quella cioè di dimenticarsi dell’amore verso Dio e di pensare che si possa amare il prossimo senza amare Dio, scordandosi di Lui o trascurandolo o addirittura negandolo. E allora dobbiamo riconoscere con lucidità che tante volte abbiamo ridotto il cristianesimo a messaggio puramente sociale, per niente diverso dalle tante prospettive sociali e politiche presenti nel mondo. E’ accaduto e accade purtroppo tante volte che si ritenga inutile la preghiera, il rapporto vivo col Signore, l’esperienza del suo amore attraverso i sacramenti. Che importa andare a Messa, si sente dire spesso: basta aiutare il prossimo! Ma non è così: se tu non vai a Messa, cioè se tu non partecipi – naturalmente con fede e convinzione – al Mistero dell’amore di Cristo; se tu non ti lasci trasformare dalla Grazia; se tu non fai quotidiano riferimento a Dio, tu non puoi amare veramente il tuo prossimo. Non solo non ce la farai mai ma quando penserai di aver aiutato il tuo prossimo, lo avrai reso in realtà più schiavo di prima, dipendente da te e avrai soffocato in lui la speranza.

Oggi si fanno tante cose per gli altri. E’ vero, pur se a volte si raccontano più che farle o si ingigantiscono magari anche solo per apparire. Le nostre stesse società avanzate promuovono leggi e comportamenti che vorrebbero realizzare un mondo più giusto e fraterno. Spesso però ci si dimentica di Dio. Anzi, lo si esclude deliberatamente dalla vita personale, dalle famiglie, dalle istituzioni educative, dalla società in genere. Così facendo si viene però a togliere fondamento alla stessa inalienabile dignità di ogni essere umano e si produce una radicale impossibilità di amarci e di amare veramente il prossimo.

Il Signore Gesù è stato molto chiaro, ricordiamocelo: “Il primo comandamento è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. La memoria dei missionari martiri morti nel 2016 che facciamo questa sera è ricordo di chi, sulle orme di Gesù, ha dato fino al dono della vita l’esempio proprio di questo unico, inscindibile amore verso Dio e verso il prossimo.

Accogliendo le parole di Gesù e la testimonianza dei missionari martiri, sentiamo allora stasera tutta la nostra debolezza. Ci accorgiamo di quanto siamo ancora distanti dall’amore che dovremmo vivere con tutto il nostro cuore, con tutta la nostra anima, con tutto noi stessi.
Ecco perchè, consapevoli della nostra misera realtà, non celebriamo ora l’Eucaristia ma compiamo un gesto penitenziale. Insieme vogliamo supplicare il Signore con le parole che ci ha suggerito il profeta Osea nella prima lettura: “Togli ogni iniquità, accetta ciò che è bene; non offerta di tori immolati, ma la lode delle nostre labbra.” Unitamente alla supplica accorata, vogliamo anche esprimere tutta la nostra fiducia nel Signore che, come abbiamo ascoltato sempre in Osea, così manifesta le sue intenzioni nei confronti del suo popolo peccatore: “Io li guarirò dalla loro infedeltà, li amerò profondamente, poiché la mia ira si è allontanata da loro. Sarò come rugiada per Israele; fiorirà come un giglio e metterà radici come un albero del Libano, si spanderanno i suoi germogli e avrà la bellezza dell’olivo e la fragranza del Libano.”

Si, il Signore Dio può fare questo di noi, e noi, nonostante le nostre innumerevoli inadempienze, gli chiediamo che ci converta, che ci cambi il cuore e ci liberi dalle nostre cattive abitudini, dando forza alla nostra volontà di bene. Noi ci affidiamo completamente a Lui che, solo, ha parole di vita eterna, e chiediamo anche la preziosa intercessione dei missionari martiri che hanno dato la vita per il vangelo.

+ Fausto Tardelli, vescovo




III° venerdì di Quaresima 2017 – Sant’Andrea (17 marzo 2017)

III° venerdì di Quaresima 2017 anno A
Pieve di Sant’Andrea

Eccolo lì il nostro Signore Gesù Cristo. L’abbiamo sentito nelle letture: venduto dai suoi fratelli come Giuseppe; ucciso come l’erede della parabola evangelica! Scartato, però causa della nostra salvezza. “La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo”. Si. La pietra scartata dai costruttori è diventata la pietra d’angolo. Eccolo dunque qui il nostro Dio e Signore. Eccola qui la “misura alta” dell’amore che supera la giustizia degli scribi e dei farisei di cui parlavo l’altro venerdì. Davanti ai nostri occhi è ben spiegata, evidente. A questo vertice siamo chiamati, ognuno di noi. E’ la meta della conversione pasquale. Questo vuol dire avere il cuore di Dio.

Le Scritture di oggi ci parlano della storia di Giuseppe. I fratelli lo vendono. E’ insopportabile ai loro occhi. E’ inaccettabile l’amore che l’anziano padre nutre per lui. E’ inaccettabile che questo Giuseppe sia un sognatore. “Arriva quello dei sogni”, dicono sprezzanti i suoi fratelli. Forse son sogni di un mondo diverso, fatto di giustizie e di amore. Ma i suoi fratelli invece hanno i piedi per terra e non hanno pietà. Come non ne hanno i contadini della parabola evangelica ai quali il padrone della vigna l’aveva data in affitto, dopo averla curata amorevolmente. Non hanno rispetto dei servi che ripetutamente il padrone della vigna invia. Non hanno rispetto nemmeno del suo figlio.
Che Gesù parli di se stesso in questa parabola è evidente. Come del resto Giuseppe è chiaramente immagine di Cristo. Cristo venduto e ucciso ma che vince col suo amore. Giuseppe continuerà infatti a voler bene ai suoi fratelli e verrà loro incontro perdonando la loro colpa quando si presenteranno a lui per cercare grano a motivo della carestia. Così il Figlio di Dio, pur scartato dagli uomini, continuerà a voler loro bene fino a diventare la pietra sulla quale fondare la loro vita, sulla quale rifondare l’edificio dell’immagine di Dio che è l’uomo. Edificio sgretolato a causa del peccato.

Ma perché i fratelli vogliono uccidere Giuseppe e poi lo vendono? Perché i contadini della parabola fanno lo stesso con l’erede e perché Gesù Cristo è disprezzato, umiliato e ucciso? Ma non solo dagli “altri”; anche da noi, laici, religiosi, preti, vescovi e Papi. Perché? C’è una qualche risposta a questo interrogativo?

Le letture ci dicono qualcosa. Nella prima, i motivi sembrano essere l’invidia per l’amore speciale del padre verso Giuseppe e, come dicevo, il forte disagio per il carattere “sognatore” di Giuseppe. Nella parabola evangelica sembra che anche qui i motivi siano due: il voler trattenere per sé ciò che i contadini avrebbero dovuto dare al padrone della vigna e il desiderio addirittura di impossessarsi dell’eredità del figlio.

In ambedue i casi, la violenza nei confronti dell’innocente sembra dunque nascere dalla sensazione di non avere quello che si vorrebbe oppure dal desiderio di avere quello che si ritiene importante per sé. L’accenno all’insopportabilità del sognatore sta direi a indicare la rabbia nei confronti di chi è causa di una privazione – i fratelli si sentono in qualche modo depauperati da Giuseppe – e neanche se ne accorge. Sogna appunto, come se irridesse chi sta soffrendo rodendosi l’animo. E qui sta il punto. Possiamo infatti senz’altro dire che sia i fratelli di Giuseppe che i contadini della parabola, come del resto i capi dei sacerdoti e dei farisei del vangelo sono persone che soffrono. E’ innegabile. Patiscono, rosi dalla invidia, dalla paura, dalla brama di avere. E’ però una sofferenza maligna, che Dio non può togliere. Non può essere lenita con la consolazione della sua misericordia. Non può essere eliminata dal Signore. E’ una sofferenza inevitabile, assolutamente inevitabile, perché ne è Lui la causa. Nel senso cioè che Egli, con la sua sola presenza, brucia come alcool su una ferita, svelando la vera causa di quella maligna sofferenza: essa sta dentro di loro, nel loro modo di pensare e di sentire, nelle loro patologie, nel loro cuore indurito. Ma anche nel nostro cuore indurito.

Possiamo allora concludere che si, il Signore Gesù è il salvatore dell’uomo; è l’amico degli uomini. Colui che da pienezza di vita all’uomo. In lui è il perdono e la misericordia del Padre. Ma tutto questo non lenisce il disagio, la sofferenza di chi lo vende e lo uccide. Anzi, l’acuisce. La rabbia sale ancora di più, come cresce il desiderio di eliminarlo.

Il Signore Gesù non può farci niente. E’ impotente di fronte a questo tormento, a questo soffrire. O meglio, fa una sola cosa ma che è davvero straordinaria: continua a voler bene. Così accade nella storia, allora come oggi. Il Signore Gesù ama profondamente gli uomini, ma a qualcuno e a noi stessi tante volte sembrerà sempre che Egli sia nemico dell’uomo, che egli ci rubi qualcosa, si frapponga alla nostra libertà, ai nostri desideri. Cristo vuol bene a ognuno, ma a qualcuno e a noi pure, apparirà sempre come un sognatore che non risolve la concreta sofferenza degli esseri umani.

Il Signore è venuto a donarci la vita piena, ma a qualcuno, come a noi certe volte, sembrerà che questa, lui se la voglia tenere per sé e che non riusciamo a entrarne in possesso se non rubandola o conquistandocela con le nostre stesse mani. Il Signore Gesù sarà sempre segno di contraddizione. E sempre ci sarà qualcuno, anche noi in tanti casi, che questo segno di contraddizione vorrà eliminarlo, toglierlo di mezzo, dimenticarsene. Ma nonostante tutto, Egli non smetterà di amarci, di dire quello che dice, di proporre quello che propone, di richiedere quello che richiede, di sognare un mondo senza peccato. E continuerà anche se sa di generare spesso nel cuore dell’uomo rabbia, risentimento, il tormento dell’invidia, della gelosia, della paura, la violenza che nasce dal desiderio smisurato di avere ed essere dio. Egli sempre continuerà a voler bene a ogni uomo, sempre. Continuerà sempre su questa strada e insegnerà ai suoi discepoli a fare altrettanto. senza spaventarsi se essi stessi susciteranno risentimento, rabbia, invidia e in molti la voglia e la decisione di toglierli di mezzo.

Carissimi fratelli e sorelle, in questo III venerdì di quaresima, siamo dunque invitati a guardare a Colui che è stato venduto e ucciso per noi e all’amore con cui egli risponde a chi lo rifiuta. Siamo invitati a contemplare la pietra che i costruttori hanno scartato e che è diventata la pietra d’angolo. Siamo chiamati a domandarci poi se, magari non a parole ma coi fatti, non abbiamo anche noi contribuito e non contribuiamo a venderlo e ucciderlo ogni giorno.

Dal Signore Gesù apprendiamo poi quale sia l’atteggiamento che dobbiamo maturare qualsiasi siano le contrarietà che incontriamo in mezzo agli uomini: quello dell’amore che non tien conto del rifiuto; quello del perdono che sempre rinnova la sua fiducia nei confronti dell’altro. Apprendiamo infine il necessario coraggio per essere nel mondo non timorosi e vergognosi araldi del vangelo, bensì fermi e saldi testimoni della verità di Dio e dell’uomo, con la consapevolezza chiara di dover andare spesso contro corrente, in compagnia di Gesù.

+ Fausto Tardelli, vescovo




II° venerdì di Quaresima 2017 – San Bartolomeo in pantano (10 marzo 2017)

II° venerdì di Quaresima 2017 anno A

San Bartolomeo in pantano

 

“Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei non entrerete nel regno dei cieli”.

All’inizio del cammino delle stazioni quaresimali ci vogliamo soffermare proprio su questa affermazione di Gesù contenuta nel vangelo che abbiamo appena ascoltato.

Di che giustizia si parla? Di quella degli scribi e dei farisei. Essi consideravano il comportamento di una persona soltanto dal punto di vista della legge. La legge era per loro il punto di riferimento; adempiere alla legge li faceva sentire giusti. A posto cioè. Magari discutevano a lungo su che cosa la legge di Mosè volesse nei casi concreti ma l’obiettivo era quello di adempiere a dei comandi. E con l’adempimento dei comandi, essi nutrivano l’orgoglioso compiacimento di essere bravi, giungendo persino a disprezzare coloro che non riuscivano ad osservare la legge, si ponevano quindi su di un piedistallo di superiorità. Accadeva poi anche spesso che l’osservanza della legge fosse sbandierata per essere ammirati dagli uomini e a volte, osservando scrupolosamente la lettera della legge, nella vita agivano però contro lo spirito autentico di essa, risultando così degli ipocriti. In diverse occasioni il Signore Gesù ha polemizzato con gli scribi e i farisei.

Scribi e farisei c’erano allora, ai tempi di Gesù, ma ci sono anche oggi, quando ci si riempie la bocca di belle parole magari di moda, si ama apparire e si ricerca la visibilità dell’applauso e degli onori del mondo ma poi nella vita personale non si pratica la virtù, non ci si impegna in una vita personale coerente; oppure ancora quando ci si indigna e si protesta per le malefatte degli altri, ci si erge a giudici inflessibili rivendicando per sé una moralità che gli altri invece non avrebbero; oppure ancora, quando si riduce il cristianesimo a pratiche religiose, a consuetudini o a moralismi bigotti magari pieni di pregiudizi nei confronti degli altri.

Il Signore Gesù ci invita piuttosto a superare decisamente questa giustizia. Ci invita a fare molta attenzione a non cadere in una interpretazione di tal genere della vita cristiana. Altrimenti, dice Gesù, “non si entra nel Regno dei cieli”. Non perché Lui ce lo impedirà per punizione ma perché non saremo adatti al Regno, non ne saremo capaci, non avremo le caratteristiche del Regno di Dio.

Osserviamo però con particolare attenzione ciò che ci chiede il Signore. Egli non ci invita ad aggiungere qualche altro comandamento a quelli della legge o ad alzare semplicemente l’asticella delle obbligazioni di legge. Ci invita piuttosto ad andare oltre, verso una qualità diversa, qualcosa di nuovo: ci invita cioè in definitiva, se ci pensiamo bene, ad avere il cuore stesso di Dio.

Questa è la giustizia che Gesù ci domanda: avere il cuore misericordioso di Dio. Questa è l’autentica conversione a cui siamo chiamati. Ricordiamoci delle parole di Gesù in altra parte del vangelo: siate misericordiosi come è misericordioso il padre vostro che è nei cieli; siate perfetti come è perfetto il padre vostro che nei cieli. Questo invito di Gesù l’abbiamo sentito anche nel vangelo proclamato poco fa: non basta non far del male, non basta nemmeno fare un po’ di bene agli altri; ci vuole qualcosa di più, occorre andare a riconciliarsi addirittura quando non noi, ma l’altro ha qualcosa contro di noi; dobbiamo amare anche i nemici. Pure la minima offesa è inaccettabile. In definitiva ci è chiesto di avere il cuore grande, infinito, di Dio per amare come lui ama ogni creatura. Lui che come abbiamo sentito nella prima lettura, non ha piacere della morte del malvagio ma piuttosto che desista dalla sua condotta e viva. Lui che offre a tutti, sempre, in qualsiasi momento dell’esistenza – fosse anche l’ultimo respiro come la storia del buon ladrone ci insegna – e qualsiasi cosa uno abbia commesso, la possibilità di pentirsi e trovare la vita.

Una giustizia così intesa, l’avere cioè il cuore di Dio, capite bene fratelli e sorelle carissimi, è impresa che non avrà mai fine per tutta la nostra vita terrena e forse ci vorrà anche un po’ di vita oltre la stessa morte. E’ un cammino profondo di trasformazione interiore, di cambiamento del cuore, che non si arresta fintanto che Cristo non sia tutto in noi. Di questo cammino, quello quaresimale che abbiamo intrapreso col mercoledì delle ceneri non è che un piccolo segno e un aiuto. Ogni giorno della nostra vita dunque sarà sempre poco; ogni giorno la misura non potrà mai essere colma. Sempre di più, sempre più intensamente; così è la vita dietro a Cristo, la vita alla sua sequela: occorre avere il cuore di Dio, essere nel cuore di Dio per amare come Lui e con Lui. Solo così si entra nel suo Regno e già fin d’ora se ne può gustare il sapore.

Ma questa meta altissima non è raggiungibile con il semplice esercizio della volontà, anche se è necessaria la decisione della nostra volontà e la nostra attiva collaborazione. Avere il cuore di Dio è frutto della Grazia. E’ opera dello Spirito Santo in noi. E’ dono che è dato a chi lo chiede con insistenza, con umiltà, con costanza; a chi cerca, a chi bussa, a chi domanda e supplica. E’ dono che viene dall’alto.

Allora carissimi fratelli e sorelle, chiediamo questa sera a Dio il dono di un cuore nuovo; domandiamo di avere il suo cuore in noi, di amare dunque nella misura di Dio e al modo di Dio e cerchiamo di vedere il nostro cammino quaresimale sotto questa luce; cioè come un desiderio struggente e ardente che si fa preghiera e disponibilità affinchè il nostro cuore batta all’unisono col cuore di Cristo e tutti, ma proprio tutti coloro che incontriamo, in specie i più poveri e derelitti possano trovare spazio dentro di noi, in un cuore che si sforza di amare al modo di Dio.

+ Fausto Tardelli, vescovo

 

 




Solennità del Natale – Messa della notte (25 dicembre 2016)

CATTEDRALE DI S. ZENO – MESSA DELLA NOTTE

Un bambino da accogliere; un bambino da rispettare e da amare; un bambino da cui imparare: questo è il Natale del Signore. Il nome di questo bambino è Gesù. Ma questo bambino porta anche il nome di ogni bambino del mondo.

La lettura del profeta Isaia proclama che “Un bambino è nato per noi, che ci è stato dato un figlio”. E in effetti, nella grotta di Betlemme è nato un bambino. Figlio di Maria ma non di Giuseppe. Figlio invece di Dio, secondo le parole con le quali l’angelo parlò a Maria. Quel bambino è Dio. Dio con noi. “Oggi – dicono gli angeli ai pastori – è nato un Salvatore che è Cristo Signore”.

Quel bambino che è Dio aspetta di essere accolto, carissimi fratelli ed amici. E’ dunque innanzitutto un bambino da accogliere. Allora chiese di essere accolto da Maria e Giuseppe, dai pastori e da tutti gli altri che poi lo incontrarono in cammino per le terre di Palestina. Oggi, il Dio bambino attende di essere accolto da ciascuno di noi. Questa è la questione seria dell’uomo! Non ce n’è un’altra di così seria, così importante, di così decisiva: accogliere Dio nella nostra vita e nella vita del mondo, come nelle nostre società. Tutti gli altri problemi vengono dopo perché sono la conseguenza di questo fondamentale atto che è richiesto a ciascuno: accogliere Dio in noi; accogliere il bambino Gesù nella nostra vita; lasciarci spezzare il cuore da lui e fargli spazio; non solo col sentimento ma con la nostra intelligenza, la nostra volontà, il nostro corpo, in definitiva con tutta la nostra persona. Una vita che non si apre a Dio, a quel bambino che è Dio, è una vita che si perde e si smarrisce nei meandri oscuri del labirinto del proprio io. Una società che non apre le porte a Cristo, al bambino di Betlemme, è una società che ipoteca il suo autentico sviluppo.

Ma questo Dio da accogliere è presente anche in ogni bambino del mondo a partire dal concepimento nel seno materno. E allora il Natale ci domanda impertinente se noi i bambini li accogliamo veramente; se sappiamo fargli posto; se sappiamo aprirci alla loro novità oppure se lo facciamo solo a parole. Domanda per niente scontata nella nostra società e nella nostra Italia in particolare dove di bambini ne nascono davvero pochi e le morti superano le nascite. Domanda per niente scontata, anche di fronte al numero incredibilmente alto di aborti (56 milioni ogni anno) che si fanno nel mondo e spesso proprio nelle società cosiddette più avanzate.

Ma se il bambino di Betlemme va innanzitutto accolto a braccia aperte, ciò non basta. Ed è questa la seconda considerazione che voglio fare stanotte. Il bambino Gesù va cioè anche accudito e amato. Egli attende che ci prendiamo cura di Lui e che lo facciamo crescere in noi, dentro di noi; crescere d’importanza, crescere di valore, crescere di influenza sulla nostra vita. Il Bambino Gesù attende di essere custodito nel cuore, nutrito con la nostra dedizione, amato sopra ogni cosa; messo al centro della nostra attenzione, delle nostre preoccupazioni. Diciamo la verità, carissimi amici e fratelli, è proprio così?  Nella nostra vita, il Signore Gesù è davvero importante? È davvero al centro e tutto ruota intorno a Lui? La sua parola è luce per le nostre scelte, i nostri giudizi, i nostri comportamenti?

Esaminiamoci attentamente e guardiamo il presepe. Gesù bambino è lì, piccolino. Ha bisogno di tutto. Ha bisogno del calore del nostro affetto, delle nostre mani calde d’amore. Non possiamo voltarci dall’altra parte. Non lo possiamo ignorare. Bisogna abbracciarlo, prenderlo in braccio, cullarlo, cantargli dolcemente una nenia per addormentarlo; dobbiamo saperlo accarezzare e fare attenzione al suo respiro, che non abbia a soffocare; fare attenzione perchè non s’abbia a far male, cadere, ferirsi. Certo, alle nostre mani – dobbiamo pur dirlo – il bambino Gesù rischia grosso. Eppure, sembrerà strano, ma Egli, nonostante tutto, continua a fidarsi di me, di te, di noi; continua ancora a voler venire nelle nostre braccia.

Facciamo allora attenzione. Mettiamocela tutta. Non trascuriamolo, riempendo la nostra vita di un sacco di cose che non sono Lui. Per alimentare la presenza del Signore Gesù nella nostra vita non c’è che da pregare e pregare molto, affidandoci alla sua Parola e a quei mezzi divini, i sacramenti, che la santa chiesa ci mette a disposizione.

Ma il bambino Gesù – come dicevamo – è anche presente, realmente presente in ogni bambino del mondo. Che sono quindi da rispettare, da salvaguardare, da custodire. E allora il pensiero va a quei bambini che muoiono ancora per fame e per guerre, vittime di abusi e di ingiustizie, maltrattati e schiavizzati, e proviamo angoscia e dolore. Proviamo sgomento questa notte, davanti alla grotta di Betlemme, perché in ogni bambino maltrattato, è Dio che viene nuovamente calpestato e ancora si conficcano atroci i chiodi nella carne di Cristo. E se i bambini sono maltrattati e offesi, se sono vittime innocenti, ciò è segno che questo mondo ancora non ha accolto Dio, non lo ha accettato. E’ il segno più evidente di un mondo che rifiuta il vero Dio e pensa di sostituirsi a Lui.

Infine, ed è il mio terzo pensiero questa notte, il santo bambino di Betlemme ci insegna. Si, ci insegna e noi dobbiamo imparare da Lui, come del resto da ogni bambino. Il Natale ci ricorda infatti che occorre diventare come bambini, se vogliamo entrare nel regno della luce e della pace. “Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli”(Mt 18,3). Lo ha detto chiaramente Gesù e ogni bambino del mondo ci è maestro e ci insegna la via della piccolezza e dell’umiltà e quindi del Regno.

Com’è difficile per noi adulti cosiddetti “maturi” diventare bambini! E’ difficile; eppure è necessario. Altrimenti non si entra nella vita. Occorre diventare bambini. Non ritornare bambini. Questa è un’altra cosa e sa di infantilismo. Diventare bambini invece significa farsi piccoli e poveri; accettare di svuotarsi del proprio io; è aver bisogno di tutto e di tutti. Significa esser contenti di contare niente o poco; non cercare potere, forza o rivalse; riconoscerci fragili e deboli. Significa essere sinceramente umili, vincendo la nostra prepotenza, la nostra presunzione, il nostro orgoglio. L’umiltà dell’Onnipotente Dio che si è manifestata a Betlemme e di cui San Francesco rimase affascinato, commuova anche noi questa notte e ci renda semplici e poveri.

Accogliamo allora carissimi fratelli ed amici, il bambino Gesù, prendiamoci cura di Lui ed amiamolo con tutte le nostre capacità. Impariamo infine dal divino bambino; andiamo alla sua scuola. Diventati bambini, saremo allora capaci di amare veramente il nostro prossimo e aprirci ai fratelli più deboli e fragili con una condivisione sincera dei loro dolori e angosce, delle loro gioie e speranze.

+ Fausto Tardelli, vescovo




Solennità del Natale – Messa del Giorno (25 dicembre 2016)

Natale 2016

CATTEDRALE DI S. ZENO – MESSA DEL GIORNO

Che cosa desidera il cuore dell’uomo più di ogni altra cosa? Cosa si affanna a cercare per tutta la vita? Qual è il suo desiderio più profondo che mai si acquieta? Io credo che sia unicamente l’amore. Quello vero. D’essere amato, riconosciuto, voluto e allo stesso tempo di poter amare con gioia sapendo che quell’amore è apprezzato e accettato. Questo cerca ognuno di noi.

E’ la verità profonda del nostro essere. Del resto non potrebbe essere che così, dal momento l’uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio e di un Dio che è Trinità d’amore. Per cui ognuno di noi porta in sé un desiderio profondo d’essere amato e di amare senza paure.

Questo cerca ogni bambino che nasce e ogni uomo che muore. Questo cerca ogni giovane che si innamora e ogni vecchio che sente passare gli anni. Molte volte si cerca nel modo sbagliato o nel posto sbagliato. Ma anche chi sembra cercare solo se stesso, in realtà è assetato d’amore. Pure chi sembra vivere soltanto per il successo, il potere, il denaro, in fondo non lo fa che per avere almeno l’illusione di essere amato e di poter amare. Addirittura chi odia e fa guerra, chi uccide e violenta non è che un accecato mendicante d’amore, un accecato, rabbioso e pericoloso cercatore di essere riconosciuto e valorizzato così come solo l’amore può fare.

Ed ecco allora il Natale del Signore. Dio risponde al desiderio più profondo del nostro cuore facendosi bambino a Betlemme. Diventa bambino per colmare il nostro desiderio di essere amati e di amare. Anzi, fa molto di più: ci dona la possibilità di diventare, in Lui, tutto amore.

La liturgia della Messa di stamani canta che “è nato per noi un bambino, che un figlio ci è stato donato”. Questo è il Natale, carissimi fratelli e amici. Dio si dona a noi come figlio nostro; un figlio da cui essere amati e da amare. Un figlio infatti è frutto di amore, segno di amore e anche fonte di amore. Nel figlio, l’amore dell’altro si concretizza in una persona. Avere un figlio è ricevere un dono dall’altro. E’ ricevere amore. In un figlio si legge l’amore dell’altro per sé e si esprime il proprio amore per l’altro. La sofferenza che proviene dal non poter aver figli, a ben pensarci nasce esattamente da qui: cioè dal fatto che senza figli ci si sente sterili, incapaci cioè di amore verso l’altro e insieme privati di quell’amore. Ci si sente inutili, non amati, non riconosciuti, poveri d’amore.

Ecco perché la gioia del Natale tocca particolarmente nell’intimo la nostra umanità. Con la nascita di Gesù, ogni uomo diventa padre e madre. Ognuno di noi.  Con la nascita di Gesù possiamo amare ed essere amati; abbiamo nella persona del bambino Gesù il segno certo ed evidente dell’amore di Dio per noi e a nostra volta la possibilità stessa di amare. La nostra sterilità è vinta: abbiamo un figlio. Un figlio che ci cerca come un piccolo bambino cerca e si attacca al seno della madre. Pensate: Dio si fa nostro figlio, cercandoci non come un sovrano che incute timore ma come un bambino che cerca il seno della madre e si affida alla nostra tenerezza. Il Verbo eterno di Dio, consostanziale al Padre, nascendo nella carne attraverso il grembo di Maria SS.ma, è diventato veramente figlio nostro secondo la natura umana. Appartiene alla nostra natura; è pienamente e totalmente uomo, anche se rimane pienamente e perfettamente Dio.

Come ci ha detto la lettera agli Ebrei e il vangelo di San Giovanni, Dio che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri, in questi giorni ha parlato a noi per mezzo del Figlio che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza. Costui era il Verbo e il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi, facendosi figlio nostro. Di me, di te, di tutti noi.

Come non commuoverci? Come non sentirci profondamente accolti, stimati, valorizzati? Come non sentirsi oggetto di un amore sorprendente e inaudito che ci permette finalmente di amare con tutto noi stessi senza alcuna paura?  Il nostro cuore è inquieto – direbbe S.Agostino – perché è sempre in cerca d’amore. Cerca l’amore senza fine, l’amore assoluto ed eterno, l’amore assolutamente fedele, l’amore che non viene meno. Ma questo amore non si trova nelle creature se non in piccola parte. Questo amore è invece ciò che si rivela e ci viene donato a Natale nel bambino Gesù che è nostro figlio. Il Natale è la parola d’amore che Dio sussurra al nostro cuore. Una parola, non come quella degli amanti, spesso smentita dai fatti ma Parola fedele per sempre; Parola che si fa carne.

Cosa saremmo noi, se nessuno ci amasse? Se nessuno ci volesse bene? Niente. Ma cosa saremmo anche se non amassimo a nostra volta? Niente. Noi abbiamo bisogno dell’amore, di essere amati e di amare, come dell’aria che respiriamo; ne abbiamo bisogno per nascere, per vivere e anche per morire. Altrimenti piomberemmo nel nulla. Ma col Natale Dio dice a ciascuno di noi: io ti amo; ti voglio bene come unico, totalmente e fedelmente. Il mio amore per te non verrà mai meno. Il tuo nome io lo conosco fin da principio e niente di te mi è indifferente. Io ti amo come un piccolo bambino ama la sua mamma. E mentre Dio ci dice così, Egli si offre al nostro amore, ci da cioè la possibilità di amarlo, di accarezzarlo, di nutrirlo, di stringerlo al nostro petto cullandolo col canto del nostro affetto. Se anche non siamo molto capaci di amare, si offre a noi come piccolo bambino perché il nostro cuore di pietra si sciolga e si trasformi in un cuore di carne. Lui ci trasforma – se lo vogliamo. Lui cambia la nostra vita e ci fa figli di Dio. Dice San Giovanni nel vangelo: “A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo amore, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati.”

Dio dunque a Natale si è fatto uomo perché noi possiamo diventare Dio. E diventare Dio significa imparare ad amare come Lui ci ama e ama ogni uomo. Ecco perché il Natale ci spinge verso gli altri, ad aprirci agli altri. L’essere amati scioglie i nodi del nostro egoismo e ci apre ai fratelli. Nell’esser amati da Dio scopriamo che anche gli altri, uno per uno, sono amati dallo stesso Dio e insieme formiamo la sua famiglia. Il Bambino Gesù dunque ci spinge necessariamente verso gli altri perché anche gli altri, attraverso la nostra personale testimonianza e il nostro impegno, sentano che sono voluti e amati da Dio. Se non amiamo – non si può amare soltanto a parole – l’amore non circola in noi e noi restiamo isolati, soli, tremendamente soli. A poco varrebbe a quel punto celebrare il Natale. Solo renderci disponibili al flusso dell’amore ricevuto e donato ce lo fa vivere in pienezza e in mondo non “mondano”.

Ed è questo allora che auguro a me e a tutti voi che condividete con me la gioia di questo giorno.




Solennità dell’Immacolata (8 dicembre 2016) istituzione di un lettore e di un accolito

Solennità dell’Immacolata

8 dicembre 2016
istituzione di un lettore (Eusebio Farcas)
e di un accolito (Gianni Gasperini)

La lettura dal libro della Genesi che abbiamo ascoltato ci presenta innanzitutto il dramma dl peccato delle origini. L’uomo, al momento della sua origine non si è fidato di Dio. Dio lo ha voluto e creato. Lo ha voluto e creato libero e somigliante a sé per quanto è possibile a una creatura. Dio ha da subito offerto all’uomo un’alleanza, un patto, una relazione di amicizia e amore. L’uomo però ha rifiutato. Ingannato dal diavolo, il serpente antico, l’uomo ha pensato di essere talmente grande, talmente importante, talmente autosufficiente da poter fare a meno di Dio. Il peccato originale è espresso nella Sacra Scrittura come “disobbedienza” ma leggendo più in profondità, questo peccato è innanzitutto un non credere all’amore di Dio, un non volersi fidare di Lui, ritenendolo bugiardo e ingannatore, nemico del vero bene dell’uomo. Conseguenza del peccato delle origini è stata la frantumazione dei rapporti tra gli uomini, prima di tutto fra l’uomo e la donna; la frantumazione della società umana nell’odio omicida; la distruzione di una relazione positiva tra l’uomo e la natura; la scissione interna all’uomo stesso, la sua alienazione. Conseguenze del tutto logiche, perché staccandosi da Dio che è amore e fonte della vita, l’uomo non può che andare incontro all’odio e alla morte.

Il peccato d’origine non è primariamente un peccato sociale. E’ invece colpevole mancanza di fiducia e di accoglienza di Dio. Le conseguenze sono si sociali ed evidenti nella violenza che caratterizza spesso i rapporti tra gli uomini. Ma la radice del peccato è la non accettazione di Dio nella propria vita.

La lettura della genesi si chiude con una grande speranza. Il peccato non ha l’ultima parola sull’uomo. La morte non ha l’ultima parola sulla storia degli uomini. In quello che giustamente è stato chiamato il “protovangelo”, cioè il primo annuncio della Buona Notizia della salvezza per l’uomo, Dio promette che attraverso una donna nascerà qualcuno che schiaccerà definitivamente la testa del serpente antico e quindi darà all’uomo la possibilità di riandare nuovamente nelle braccia di Dio e di vivere nell’amore.

Noi oggi abbiamo questa possibilità, quella di riconciliarci con Dio in Cristo. L’umanità intera ha questa possibilità. Ed è questo il messaggio e l’appello che scaturisce dalla festa dell’Immacolata Concezione: prima ancora di un appello alla riconciliazione tra gli uomini, bisogno reale e urgente ma inefficace se non va all’origine del problema, esso è appello ad accoglie il Dio della misericordia nella propria vita, a ricorrere al suo perdono, ad andare a Lui pieni di fiducia.

Il brano della lettera di San Paolo apostolo agli efesini completa il discorso ricordandoci il nostro destino eterno. Paolo benedice Dio, lo loda perché ci ha scelti in Gesù Cristo e ci ha fatto suoi figli  mediante il suo Figlio unigenito. Poi ci ricorda che siamo stati fatti eredi, predestinati a essere lode della gloria di Dio.

Non abbiamo dunque un destino puramente terreno e il Regno di Dio a cui siamo predestinati non è un regno terreno, anche se inizia su questa terra e su questa terra ci si può decidere per esso. Noi siamo destinati alla lode di Dio. La nostra vita trova il suo senso ultimo nella comunione con Dio. Per questo siamo stati creati, per questo siamo stati redenti, per questo lo Spirito Santo è stato effuso nei nostri cuori. Se perdessimo questa chiara coscienza, il messaggio cristiano si ridurrebbe a ideologia, a messaggio puramente sociale o politico, alla stregua di tanti altri che l’uomo ha elaborato e consumato lungo i secoli. Come dice un famoso detto di Sant’Ireno, citato purtroppo quasi sempre a metà: “Gloria Dei vivens homo”. L’uomo vivente cioè è la gloria di Dio. Ma la vita dell’uomo consiste però nella visione di Dio. “vita autem hominis visio Dei”. Questa è la seconda parte della frase di S.Ireneo che ci dice chiaramente che fuori dalla relazione con il suo creatore, l’uomo è morto, non è più “vivens homo”. (sant’Ireneo di Lione, II secolo, in Adversus haereses, IV, 20,7).

L’immacolata Vergine Maria ce lo dice chiaramente anche lei: lei infatti è la piena di grazia. In lei l’amore di Dio è pieno. E’ questo che fa di lei la tutta santa, la più alta delle creature, la donna, la creatura, pienamente realizzata. E il si che lei pronuncia all’angelo è prima di tutto il si ad essere amata da Dio, ad essere “piena di grazia”; è il si ad accogliere Dio dentro di sé. Conseguentemente è anche il si dell’amore detto a tutti noi, per il nostro soccorso.

E’ esattamente ciò che il Vangelo ci ha annunziato poco fa. La Vergine concepita senza peccato originale per singolare privilegio in vista della sua divina maternità, con una liberazione che è frutto anticipato della croce di Cristo, ci mostra la via della nostra santificazione. La via che è proposta a ogni uomo; quella che la Chiesa di cui Maria è immagine, deve indicare agli uomini di oggi: la via che conduce a Dio, all’accoglienza di Lui, fondamento di ogni autentica accoglienza umana tra fratelli.

Lo Spirito Santo, dice l’angelo a Maria “scenderà̀ su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà̀ con la sua ombra. Perciò̀ colui che nascerà̀ sarà̀ santo e sarà̀ chiamato Figlio di Dio”. Così comprendiamo Chi è colui che può far nuove tutte le cose e renderci santi: lo Spirito di Dio. Con l’opera dello Spirito Santo la vergine partorirà e darà al mondo il Figlio di Dio. Mediante l’opera dello Spirito Santo ciascuno di noi può rinascere a vita nuova e generare vita. Questo è ciò di cui ha bisogno il mondo. Questo è ciò che ogni uomo attende. Solo nella docilità all’azione dello Spirito ogni uomo vedrà la salvezza e sorgeranno cieli nuovi e terre nuove. Ed è questo stesso spirito che suscita carismi e ministeri, arricchendo la chiesa di doni. Come in questo momento con questi due giovani che saranno istituiti lettori e accoliti.

(La seguente monizione è ripresa e riadattata dal Rito della Istituzione dei lettori e degli accoliti)

Carissimi, Eusebio e Gianni che diventerete tra poco l’uno lettore e l’altro accolito, ascoltate ora con attenzione quanto la chiesa ha da dirvi in questo momento.

Dio nostro Padre ha rivelato il mistero della nostra salvezza e lo ha portato a compimento per mezzo del suo Figlio Gesù Cristo fatto uomo, il quale, dopo averci detto e dato tutto, ha trasmesso alla sua Chiesa il compito di annunziare il Vangelo a ogni creatura. Il lettore è annunziatore della parola di Dio ed è chiamato a collaborare a questo impegno primario nella Chiesa e perciò̀ è investito di un particolare ufficio, che lo mette a servizio della fede, la quale ha la sua radice e il suo fondamento nella parola di Dio. Il lettore proclama la parola di Dio nell’assemblea liturgica; educa alla fede i fanciulli e gli adulti e li guida a ricevere degnamente i Sacramenti; porta l’annunzio missionario del Vangelo di salvezza agli uomini che ancora non lo conoscono. Attraverso questa via e con la sua collaborazione molti potranno giungere alla conoscenza del Padre e del suo Figlio Gesù̀ Cristo, che egli ha mandato, e così otterranno la vita eterna. È quindi necessario che, mentre il lettore annunzia agli altri la parola di Dio, sappia accoglierla in se stesso con piena docilità̀ allo Spirito Santo; la mediti dunque ogni giorno per acquistarne una conoscenza sempre più viva e penetrante, ma soprattutto renda testimonianza con la sua vita al nostro salvatore Gesù̀ Cristo.

L’accolito invece partecipa in modo particolare al ministero della Chiesa. Essa infatti ha il vertice e la fonte della sua vita nell’Eucaristia, mediante la quale si edifica e cresce come popolo di Dio. All’accolito è affidato il compito di aiutare i presbiteri e i diaconi nello svolgimento delle loro funzioni, e come ministri straordinari può distribuire l’Eucaristia a tutti i fedeli, anche infermi. Questo ministero lo impegna a vivere sempre più intensamente il sacrificio del Signore e a conformarvi sempre più̀ il suo essere e il suo operare. Cerchi quindi di comprenderne il profondo significato per offrirsi ogni giorno in Cristo come sacrificio spirituale gradito a Dio. Non dimentichi che, per il fatto di partecipare con i suoi fratelli all’unico pane, forma con essi un unico corpo. Ami di amore sincero il corpo mistico del Cristo, che è il popolo di Dio, soprattutto i poveri e gli infermi. Attuerà così il comandamento nuovo che Gesù̀ diede agli apostoli nell’ultima cena: amatevi l’un l’altro, come io ho amato voi.

 

 

 

 




Prolusione anno accademico Accademia lucchese di scienze, lettere e arti (Lucca, 29 novembre 2016)

 

La custodia del creato alla luce della enciclica “Laudato si” di Papa Francesco

Prolusione per l’apertura dell’anno accademico dell’Accademia lucchese di scienze, lettere e arti (Lucca 29.11.2016)

 

Come si sa, centocinquanta anni fa nasceva quella che da allora si chiamò “ecologia”[1], dal greco οίκος (casa) e lόgος (discorso). Nasceva come scienza che studia gli organismi viventi nelle loro relazioni reciproche e nella relazione con l’ambiente. Una scienza che si è sviluppata ed è diventata sempre più di attualità.

Lo “status quaestionis” dell’ecologia

Negli ultimi decenni l’attenzione si è concentrata nell’analisi dell’impronta umana sui cambiamenti del clima globale e sull’erosione della biodiversità, un’erosione così rapida da indurre alcuni ecologi a parlare addirittura di grande estinzione di massa. Pian piano, questa impronta umana è stata riconosciuta come determinante in modo sempre più deciso. Nel 2000 Paul Crutzen, premio Nobel per la Chimica nel 1995 per i suoi studi sull’ozono e membro dell’Accademia pontificia per le scienze, ha proposto di chiamare “antropocene” l’attuale fase della storia dell’ecosistema Terra, per sottolineare l’impronta enorme e inedita che una singola specie, l’Homo sapiens, imprime nei sistemi ecologici locali e globali. Nella Conferenza sull’Ambiente e lo Sviluppo organizzata dalle Nazioni Unite nel 1992 a Rio de Janeiro (UNCED), praticamente tutti gli stati della Terra, preso atto della situazione, si impegnarono solennemente a cercare di ridurre l’influenza umana sulla dinamica del clima e sulla dinamica della biodiversità. Firmarono quindi la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (United Nations Framework Convention on Climate Change, UNFCCC) che resta un punto di riferimento fondamentale nella questione ecologica odierna. Negli ultimi decenni ci si è soffermati sul problema del surriscaldamento del pianeta. Tutti credo ricordiamo il COP[2] 21 tenutosi nel dicembre 2015 a Parigi a cui è seguito ultimamente, ai primi di novembre, il COP 22 a Marrakech. Dal settembre 2015 le Nazioni Unite con l’Agenda 2030[3] hanno fissato i 17 obiettivi per uno “sviluppo sostenibile” dell’umanità da raggiungere entro quell’anno. Obiettivi che sono raggruppati poi in tre grandi prospettive: crescita economica; inclusione sociale; tutela dell’ambiente. Nell’Agenda è espressa con molta chiarezza l’urgenza di ridurre le emissioni di gas serra e di affrontare il tema dell’adattamento agli impatti negativi dei cambiamenti climatici. Maggiori emissioni di gas serra condurranno a un maggior riscaldamento che amplificherà i rischi esistenti per i sistemi umani e naturali e ne creerà di nuovi.

Nel novembre del 2015 (20 novembre) una dozzina di società e associazioni scientifiche italiane hanno steso una Dichiarazione comune alla vigilia della COP 21 di Parigi. Gli scienziati italiani si sono rivolti a tutti i protagonisti coinvolti nel tema dei cambiamenti climatici per offrire uno sguardo interdisciplinare sulle soluzioni possibili. In questa Dichiarazione si afferma che “i cambiamenti climatici costituiscono per la comunità internazionale una delle sfide più complesse e importanti, le cui conseguenze negative hanno un’elevata rilevanza per economie e società, non solo per l’ambiente.” Vi si riporta inoltre quello che il Quinto Rapporto di Valutazione sui Cambiamenti Climatici dell’IPCC[4], che è la più esaustiva e aggiornata raccolta delle conoscenze scientifiche sul clima, afferma; cioè che esiste un consenso condiviso all’interno della comunità scientifica su alcuni punti. E cioè:

– che l’influenza umana sul sistema climatico è inequivocabile ed è estremamente probabile che le attività umane siano la causa dominante del riscaldamento verificatosi a partire dalla metà del XX secolo. Il continuo riscaldamento del pianeta aumenta i rischi di impatti gravi, pervasivi e irreversibili sul sistema climatico;

– che gli impatti dei cambiamenti climatici si stanno già manifestando e interessano sia i Paesi in via di sviluppo che i Paesi più sviluppati. Le comunità più deboli da un punto di vista sociale, economico, culturale, politico, istituzionale sono particolarmente vulnerabili ai cambiamenti climatici;

– che dal 1950 ad oggi sono aumentati gli eventi climatici estremi (ad esempio ondate di calore, innalzamento del livello del mare, precipitazioni violente, gravi siccità) e molti di questi sono attribuibili all’influenza delle attività umane;

– che l’esposizione e la vulnerabilità ai cambiamenti climatici e agli eventi estremi, insieme ad eventi pericolosi connessi al clima, costituiscono componenti cruciali per la valutazione e la gestione del rischio di ogni attività economica o sociale.

Quanto fin qui detto potremmo considerarlo lo status quaestionis sulla ecologia, oggi. Come dice Gianfranco Bologna, Direttore scientifico WWF, sull’ultimo quaderno di “Scienza e vita”[5], la comunità scientifica internazionale concorda sostanzialmente sui punti ora ricordati.

Non possiamo però negare – lo dico per inciso – che esista anche un dibattito attorno a queste problematiche. In particolare circa il surriscaldamento del mondo che sarebbe dovuto principalmente all’intervento umano. Si leva qua e là qualche voce critica nel merito. Senza citare i “negazionisti” per partito preso, richiamo soltanto una voce assai moderata e ragionevole, quella di Mieli in un articolo recentissimo, dei primi di novembre, in occasione del COP 22 a Marrakech; articolo apparso sul Corriere della sera che così titolava “È ragionevole che, sia pure a titolo precauzionale, vengano prese misure anche drastiche contro il global warming. È invece irrazionale dar retta a chi lo ritiene un campo delle certezze assolute”. Ed è soprattutto ignobile – aggiungeva Mieli – accodarsi al linciaggio di chi muove legittime obiezioni all’assunto che riconduce interamente all’uomo il surriscaldamento del pianeta. Ancora Mieli indicava come per lo meno da discutere, la questione dell’influsso dell’uomo sul clima, dal momento che il clima ha una sua storia molto particolare e il suo andamento anche soltanto nell’era cristiana ha subito notevoli variazioni.[6]

  1. L’intervento del Papa

Aldilà però dei dibattiti, ecco comunque il grido del Papa che scende in campo e fa propria la indiscutibile preoccupazione mondiale sulla “casa comune”. Il Papa ritiene indilazionabile e necessario un cambiamento nella vita degli uomini del nostro tempo e quindi della economia e della politica che governa il mondo, per la salvaguardia del creato. Sbaglieremmo però se vedessimo nell’Enciclica semplicemente un contributo del Papa e della Chiesa alla preoccupazione ecologica. L’Enciclica è molto di più e, aldilà delle questioni scientifiche soggiacenti, essa appartiene al grande magistero sociale dei papi dalla fine dell’800 ad oggi: si tratta sempre di “Caritas in veritate in re sociali”, cioè del messaggio evangelico di Cristo “in re sociali”, nelle questioni sociali; quindi rappresenta un invito a scoprire la bellezza del creato donatoci da Dio; la nostra responsabilità nel custodirlo e farlo diventare casa accogliente per tutti gli uomini di oggi e di domani e infine, un invito a cambiare i nostri comportamenti, gli stili di vita e le nostre stesse società perché siano sempre più umane.

Ecco allora che al n. 2 dell’enciclica Papa Francesco afferma: “Questa sorella – la terra – protesta per il male che le provochiamo, a causa dell’uso irresponsabile e dell’abuso dei beni che Dio ha posto in lei. Siamo cresciuti pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla. La violenza che c’è nel cuore umano ferito dal peccato si manifesta anche nei sintomi di malattia che avvertiamo nel suolo, nell’acqua, nell’aria e negli esseri viventi. Per questo, fra i poveri più abbandonati e maltrattati, c’è la nostra oppressa e devastata terra. «I cambiamenti climatici sono un problema globale con gravi implicazioni ambientali, sociali, economiche, distributive e politiche, e costituiscono una delle principali preoccupazioni attuali dell’umanità», scrive il Papa. Se inoltre, «il clima è un bene comune, di tutti e per tutti», l’impatto più pesante della sua alterazione ricade sui più poveri.

Nel messaggio per la giornata del creato del primo settembre scorso, il Papa aggiungeva: “Con questo Messaggio, rinnovo il dialogo con ogni persona che abita questo pianeta riguardo alle sofferenze che affliggono i poveri e la devastazione dell’ambiente. Dio ci ha fatto dono di un giardino rigoglioso, ma lo stiamo trasformando in una distesa inquinata di «macerie, deserti e sporcizia» (Enc. Laudato si’, 161). Non possiamo arrenderci o essere indifferenti alla perdita della biodiversità e alla distruzione degli ecosistemi, spesso provocate dai nostri comportamenti irresponsabili ed egoistici. Il pianeta continua a riscaldarsi, in parte a causa dell’attività̀ umana: il 2015 è stato l’anno più̀ caldo mai registrato e probabilmente il 2016 lo sarà̀ ancora di più̀. Questo provoca siccità̀, inondazioni, incendi ed eventi meteorologici estremi sempre più̀ gravi. I cambiamenti climatici contribuiscono anche alla straziante crisi dei migranti forzati. I poveri del mondo, che pure sono i meno responsabili dei cambiamenti climatici, sono i più̀ vulnerabili e già̀ ne subiscono gli effetti. Ascoltiamo «tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri» (ibid., 49), e cerchiamo di comprendere attentamente come poter assicurare una risposta adeguata e tempestiva.”

  1. La “Laudato si” nel magistero sociale

Forse è utile a questo punto inquadrare la Laudato si nel contesto del magistero sociale della Chiesa, cogliendone quindi gli assunti fondamentali, cioè il messaggio in essa contenuto. Si tratta dunque di un’enciclica, come recita il suo sottotitolo – “sulla cura della casa comune”. Il titolo, “Laudato si” è preso, come ben sapete dal Cantico di frate sole di San Francesco d’Assisi ed è la prima volta – mi piace sottolinearlo – che un documento del magistero papale inizia con parole “in volgare” e non in latino.

La “Laudato sì” si colloca nel solco delle altre encicliche sociali – a partire dalla “Rerum novarum” di Papa Leone XIII (1891), per passare alla “Quadragesimo anno” di Pio XI (1931), alla “Mater et magistra” (1961) e alla “Pacem in terris” (1963) di San Giovanni XXIII, al Concilio Vaticano II con la “Gaudium et spes” (1965), arrivando alla “Populorum progressio” (1967) e “Octogesima adveniens”di Paolo VI (1971)), alla “Laborem exercens” (1981), alla “Sollecitudo rei socialis” (1987) e “Centesimus annus” (1991) di San Giovanni Paolo II e alla “Caritas in veritate” di Papa Benedetto XVI nel 2009.

Pur collocandosi in questa scia, l’enciclica di Papa Francesco ha una sua specificità, una sua originalità. Rappresenta un interessantissimo e in buona parte nuovo capitolo del magistero sociale. Per vari motivi. Il primo è proprio il tema e cioè la “cura della casa comune”. E’ la prima volta che il supremo Magistero prende esplicitamente in esame la questione ecologica. Il secondo motivo di originalità è di essere rivolta non solo ai cristiani o ai credenti o anche solo agli uomini di buona volontà ma a “ogni uomo che abita questo pianeta”. Infine è originale perché vi si dice chiaramente che “le soluzioni” non ci sono già ma vanno cercate e ciò si può fare soltanto attraverso un dialogo portato avanti ad ogni livello (n. 14), con tenacia e convinzione.

  1. Gli assi portanti dell’Enciclica

Quali sono gli assi portanti – domandiamoci ora – che attraversano l’enciclica (cfr n.16)? A mio parere sono quattro: 1°. L’interconnessione tra problema ecologico e comportamento umano; non solo, ma l’intima relazione tra i poveri e la fragilità del pianeta, tra poveri e rovina ambientale. Per cui la questione ecologica è oggi questione sociale. 2°. Il paradigma tecnologico come causa del disastro. O meglio come viene intesa e usata la tecnologia, con quale mentalità ci si rivolge ad essa. Per cui è necessario criticare il nuovo paradigma e le forme di potere che derivano dalla tecnologia; conseguentemente occorre cercare altri modi di intendere l’economia e il progresso 3°. La ricerca di una ecologia integrale, cioè veramente umana, complessiva rispetto alle diverse dimensioni dell’essere umano. 4°. La necessità di una conversione personale e sociale, assumendo stili di vita nuovi e uno sguardo direi “francescano” sul creato. Non per niente il cantico delle creature di frate Francesco è il ritornello di questa Enciclica.

Passo rapidamente in rassegna questi quattro assi portanti della Laudato si. Partiamo dall’interconnessione tra stato dell’ambiente e comportamento umano. L’Enciclica, per espressa ammissione di Papa Francesco, è una riflessione “gioiosa e drammatica” insieme (n. 246). Non è un’enciclica per abbellire una casa che si presenta già bene, quindi semplicemente da rifinire. No. La casa comune è considerata in uno stato miserando, per cui se non si prende rimedio, se non avviene una svolta, la situazione rischia di precipitare in modo disastroso. La situazione è molto pericolosa. La sua drammaticità è ben espressa nei nn. 2, 61 e 162 dell’Enciclica. La casa comune ma anche gli abitanti di questa casa sono in grave difficoltà. (vedi tutto il I capitolo). E questo è dovuto in gran parte alle scelte dell’uomo, ai suoi comportamenti. Una situazione drammatica dunque anche per l’uomo. Anzi è proprio questo un assunto dell’intervento papale: l’uomo è pienamente coinvolto nella vicenda della “casa comune”, non solo come abitante di essa ma anche come responsabile del suo stato di salute. La sua salute morale e spirituale influisce in modo determinante sulla “casa comune” e a sua volta, lo stato della “casa comune” influisce su di essa. Per questo la “questione ecologica” è innanzitutto questione umana, questione di giustizia sociale. I problemi della salvaguardia dell’ambiente vanno insieme a quelli della salvaguardia dell’umano. La questione ecologica è oggi il nuovo volto della questione sociale e mostra al suo interno la necessità di risolvere una crisi ambientale che non è solo tale. È prima di tutto crisi etica, crisi antropologica, crisi nei rapporti con Dio. Ed è questione sociale perché implica un problema di giustizia ecologica, di degrado degli ecosistemi che finisce per nuocere le popolazioni più povere. Implica una questione di giustizia sociale anche perché vede un debito ecologico tra i vari paesi nord-sud: debito contratto da alcuni paesi più sviluppati, che hanno utilizzato con le loro potenzialità tecnologiche le risorse umane oltre il dovuto, sprecandole e creando dei problemi di inquinamento anche per gli altri.

  1. Il “paradigma” tecnocratico

Da dove viene la situazione così drammatica che stiamo vivendo? Che cosa l’ha prodotta e la produce? I nomi sono diversi. Il Papa parla di antropocentrismo (n. 115) e di relativismo (n. 122) ma soprattutto di dominanza del “Paradigma tecnocratico”(n. 106) che si sposa perfettamente con un sistema economico ostile all’uomo, che produce una “economia che uccide” (n. 109).

Che cos’è questo “paradigma tecnocratico”? Dice il Papa al n. 106 “In tale paradigma risalta una concezione del soggetto che progressivamente, nel processo logico-razionale, comprende e in tal modo possiede l’oggetto che si trova all’esterno….. È come se il soggetto si ponesse di fronte alla realtà informe ritenendola totalmente disponibile alla sua manipolazione.

L’intervento dell’essere umano sulla natura si è sempre verificato, ma per molto tempo ha avuto la caratteristica di accompagnare, di assecondare le possibilità offerte dalle cose stesse. Si trattava di ricevere quello che la realtà naturale da sé permette, come tendendo la mano. Viceversa, ora ciò che interessa è estrarre tutto quanto è possibile dalle cose attraverso l’imposizione della mano umana, che tende ad ignorare o a dimenticare la realtà stessa di ciò che ha dinanzi. Per questo l’essere umano e le cose hanno cessato di darsi amichevolmente la mano, diventando invece dei contendenti.

Da qui si passa facilmente all’idea di una crescita infinita o illimitata, che ha tanto entusiasmato gli economisti, i teorici della finanza e della tecnologia – dice il Papa. Ciò suppone la menzogna circa la disponibilità infinita dei beni del pianeta, che conduce a “spremerlo” fino al limite e oltre il limite. Si tratta del falso presupposto che «esiste una quantità illimitata di energia e di mezzi utilizzabili, che la loro immediata rigenerazione è possibile e che gli effetti negativi delle manipolazioni della natura possono essere facilmente assorbiti ».

Questo paradigma tecnocratico “tende ad esercitare il proprio dominio anche sull’economia e sulla politica. L’economia assume ogni sviluppo tecnologico in funzione del profitto, senza prestare attenzione a eventuali conseguenze negative per l’essere umano mentre la finanza soffoca l’economia reale.

In alcuni circoli si sostiene – afferma ancora il Papa – che l’economia attuale e la tecnologia risolveranno tutti i problemi ambientali; ugualmente si afferma che i problemi della fame e della miseria nel mondo si risolveranno semplicemente con la crescita del mercato. In realtà si da luogo soltanto a una «sorta di supersviluppo dissipatore e consumistico che contrasta in modo inaccettabile con perduranti situazioni di miseria disumanizzante». (n.109)

  1. Necessità di un cambiamento

Per tutte queste ragioni l’umanità ha bisogno di cambiare (n. 202). C’è necessità di una vera “rivoluzione”. Una “rivoluzione” culturale, morale, interiore, politica, economica… (cfr n. 111). Una rivoluzione che nasce dalla presa di coscienza della situazione e delle nostre responsabilità (leggi n. 114). Non ci si può illudere di risanare la nostra relazione con la natura e l’ambiente, senza però risanare anche le relazioni umane fondamentali (n. 118 e 119). Questa rivoluzione è una “conversione ecologica” in senso ampio, interiore e spirituale. Una conversione che è sicuramente possibile (n. 217). Il Papa non è pessimista. Piuttosto realista. Anche quando appare quasi spietato nelle analisi, le sue parole sono sempre cariche di positività, perché manifestano una grande fiducia in Dio e nell’uomo, il quale può sempre riprendersi. Da questo punto di vista, la Laudato si è un’enciclica di grande speranza. Dentro vi è la certezza dell’amore del Signore, della sua misericordia e della possibilità che l’uomo ha di cambiare rotta. Non tutto quindi è perduto (nn. 61, 112, 205).

In che consiste questa conversione, questo cambiamento? Si tratta di andare verso una “un’ecologia integrale” che “esige di fermarsi a pensare e a discutere sulle condizioni di vita e di sopravvivenza di una società, con l’onestà di mettere in dubbio modelli di sviluppo, produzione e consumo” (n.138). Il cap. IV della Laudato si’ è dedicato proprio ai diversi elementi di una ecologia integrale. Vi si parla quindi di una ecologia ambientale, economica e sociale; di una ecologia culturale; di una ecologia della vita quotidiana; di una ecologia che si costruisce attorno al principio del bene comune, un principio che svolge un ruolo centrale e unificante nell’etica sociale, inteso – questo bene comune – come «l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono tanto ai gruppi quanto ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente »[7]; infine si parla di una ecologia che tenga conto della giustizia tra le generazioni.

Dunque possiamo dire che l’ecologia integrale riguarda non solo l’ambiente ma anche l’uomo; l’uomo e l’ambiente in relazione tra di loro. Per cui, se si vuole salvaguardare l’ambiente, ci si deve interessare del comportamento dell’uomo, della cultura che ha l’uomo, di come sono organizzate le città in cui si vive, di quali debbono essere gli stili di vita da assumere.

Dall’ecologia integrale sorgono alcune linee di orientamento e di azione. Per promuoverla (nn. 137-155) non bastano le leggi. Occorre una coscienza formata e degli orientamenti etici chiari.  Tutto il Cap. VI è molto interessante a questo proposito perché parla della educazione per una cittadinanza ecologica (n. 211). Si tratta di «puntare su un altro stile di vita», che apre anche la possibilità di «esercitare una sana pressione su coloro che detengono il potere politico, economico e sociale». Poi ci sono alcuni “grandi percorsi di dialogo” da avviare e continuare che ci aiutano a uscire dalla spirale di autodistruzione in cui siamo affondati.” (Cap. V). La Chiesa non pretende di definire le questioni scientifiche, né di sostituirsi alla politica, ma invita a un dibattito onesto e trasparente. Invita al dialogo e a credere nella forza del dialogo (“parlarsi”). Diversi sono gli ambiti entro i quali ci si dovrà impegnare in un dialogo serio e approfondito. Sarebbe qui troppo lungo soffermarci sui suggerimenti importanti che l’Enciclica da in molti settori della vita umana e sociale.  Ne accenno soltanto qualcuno come quello per es. della politica internazionale, dove si ha “bisogno di un accordo sui regimi di governance per tutta la gamma dei cosiddetti beni comuni globali»; poi quello delle politiche nazionali, perché ci sia trasparenza nei processi decisionali e metodologicamente ci si domandi sempre per quale scopo si prendano certe decisioni. Per quale motivo. Dove. Quando. In che modo. A chi sono dirette. Quali sono i rischi. A quale costo. Chi paga le spese e come lo farà. Lo studio dell’impatto ambientale di un nuovo progetto è importantissimo e «richiede processi politici trasparenti e condotti nel dialogo. Occorre quindi dare maggior spazio a una politica che sia capace di riformare le istituzioni, coordinarle e dotarle di buone pratiche, superando pressioni di lobby e inerzie viziose. La politica non deve sottomettersi all’economia e questa non deve sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia. Oggi abbiamo bisogno che la politica e l’economia, in dialogo, si pongano decisamente al servizio della vita, specialmente della vita umana. E ciò vuol dire anche porsi seriamente il problema di un rallentamento di un certo ritmo di produzione. “Quando si pongono tali questioni – nota il Papa –  alcuni reagiscono accusando gli altri di pretendere di fermare irrazionalmente il progresso e lo sviluppo umano. Ma dobbiamo convincerci che rallentare un determinato ritmo di produzione e di consumo può dare luogo a un’altra modalità di progresso e di sviluppo.” (n. 191)

  1. Le critiche all’enciclica

Una presa di posizione così forte e decisa, come quella espressa dalla Laudato si, non poteva non incontrare contestazioni, soprattutto direi in ambito anglosassone e liberistico. E così è stato. Si è preso spunto anche in parte dal dibattito ancora in corso, a cui ho accennato all’inizio del mio intervento, sul reale peso del comportamento umano sul surriscaldamento del pianeta, ma in genere però si è trattato di reazioni da parte di persone o realtà che appartengono alle lobby sotto accusa quando si parla di responsabilità umana sull’ambiente. Ho raccolto da un articolo della rivista di cose ecclesiali Zenit, una carrellata di queste critiche. Per es. sul The Guardian sono apparse critiche anche da parte di alcuni cattolici statunitensi dichiaratamente “negazionisti”, arrivando addirittura a definire la Laudato si “un autentico disastro, parte di un movimento radicale verde anticristiano e anti progresso”.[8] L’American Petroleum Institute, una lobby potentissima nel settore, ha controbattuto all’Enciclica affermando che “l’uso del carbone aiuta i poveri a migliorare le loro condizioni”. L’Heartland Institute, centro conservatore di studi climatici, ha criticato il Papa per aver imputato all’uomo il cambiamento climatico. Duro anche l’attacco di Nick Butler, editorialista del Financial Times, secondo cui “il messaggio del Papa non centra il punto”, poiché a suo avviso la critica alla tecnologia non è il modo giusto per risolvere problemi ecologici. “La cosa scioccante dell’enciclica– scrive Butler – è il suo attacco alla scienza e alla tecnologia, gli strumenti reali, i soli strumenti, che offrono una soluzione al cambiamento climatico”. Il giornalista critica, quindi, l’idea di dover abbandonare il “paradigma tecno-economico”, in quanto tale abbandono sarebbe irresponsabile, dal momento che la ricerca scientifica e tecnologica è l’unico modus operandi affidabile per ridurre l’inquinamento e far beneficiare le popolazioni più povere di alternative credibili ai combustibili fossili.

  1. Accoglienza positiva

Aldilà di questa voci critiche, L’Enciclica di Papa Francesco ha suscitato generalmente grande interesse in Italia e in tutto il mondo e anche l’accoglienza è stata assai positiva, particolarmente in ambienti progressisti, come era immaginabile. L’impatto dirompente di questo documento non è stato ignorato dai più importanti media anglosassoni, i quali hanno discusso ampliamente le parole del Papa. E’ notevole rilevare come la Santa Sede sia stata capace di entrare nel vivo della problematica attuale, operando un’influenza positiva su un tema scottante. Sempre nella rassegna della stampa anglosassone da parte della citata rivista on line Zenit, si sottolinea che sono due le principali linee emerse: in primis un forte fascino per l’esposizione raffinata e a tratti poetica del Papa e, secondo, l’impressione che il Papa sia riuscito ad affrontare la questione ecologica con sensibilità, inserendosi abilmente fra i cunicoli non solo teologici ma anche economici, scientifici e sociologici del problema.  L’Economist, per es. in un editoriale del 16 giugno, ha dato atto del successo mondiale dell’Enciclica e ne ha attribuito la ragione al tono “universale del Papa”, che ha permesso alla Santa Sede di poter divulgare il suo messaggio a un pubblico più ampio, non solo all’interno del mondo cattolico. Per l’Economist, inoltre, il documento del Papa è così universale che a tratti potrebbe essere scambiato per un documento delle più grandi organizzazioni ecologiche, come Greenpeace o il WWF.

Conclusione

Giunto al termine di questa mia comunque breve relazione rispetto all’argomento in discussione, direi che le critiche non scalfiscono minimamente il messaggio profetico della Laudato si. Messaggio, lo ribadisco, evangelico, non sociale o politico in senso stretto. Con questa Enciclica il Santo Padre si rivolge alla coscienza di ogni uomo e lo invita, invita ciascuno di noi a prendersi seriamente cura della “casa comune”, a fare tutto il possibile per essa attraverso un dialogo a trecentosessanta gradi accompagnato da un impegno personale, culturale e sociale in genere. Prima di tutto però l’invito è a prendersi cura di quella “casa” che siamo ognuno di noi e che sono le relazioni tra di noi, le quali debbono essere improntate a rispetto, giustizia e amore fraterno. Qui non ci possono essere obiezioni di sorta. Tutti dovremmo maturare e lavorare per maturare, quello sguardo contemplativo che fu di San Francesco, il solo sguardo che ci permetterà di custodire in senso pieno la nostra amata terra. Uno sguardo cioè pieno di rispetto e di amore, dove le cose sono valorizzate, senza essere né sfruttate né idolatrate e sono viste come beni da condividere in fraternità. Chiudo dunque leggendo il n.1 della nostra Enciclica. In questo caso l’incipit fa anche da degna conclusione: «Laudato si’, mi’ Signore », cantava san Francesco d’Assisi. In questo bel cantico ci ricordava che la nostra casa comune è anche come una sorella, con la quale condividiamo l’esistenza, e come una madre bella che ci accoglie tra le sue braccia: « Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti ori et herba ».

+Fausto Tardelli

 

[1] Nel 1866, il biologo Ernst Haeckel pubblicò Generelle Morphologie der Organismen. In esso, parlando di morfologia generale degli organismi coniò una nuova parola: oekologie.

[2] COP “Conferenza delle parti” Berlino 7 aprile 1995

[3] «Cambiamo il nostro mondo: l’Agenda di sviluppo sostenibile» “Transforming our world: the 2030 Agenda for Sustainable Development” settembre 2015.

[4] “Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico” (Intergovernmental Panel on Climate Change – IPCC) è il foro scientifico formato nel 1988 da due organismi delle Nazioni Unite, l’Organizzazione meteorologica mondiale (WMO) ed il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) allo scopo di studiare il riscaldamento globale.

[5] “Per una ecologia integrale, Laudato si’ un anno dopo. I quaderni di scienza & vita, n.16, 21 giugno 2016

 

[6] Dice Mieli nell’articolo citato che nel primo secolo dell’era cristiana ci furono temperature elevate più di oggi, cosa che si ripetè intorno all’anno mille. Successivamente cis sono stati diversi innanlzamenti e abbassamenti. Cosa che è accaduto anche nel secolo XX°.

 

[7] Conc. eum. vat. II, Cost. past. Gaudium et spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, 26.

 

[8] Sul The Guardian John Vidal e Suzanne Goldeberg elencano le opposizioni registrate negli Stati Uniti, terreno decisivo per lo scontro aperto. John Boehner, leader repubblicano del Congresso, e Rick Santorum, candidato alla Presidenza, cattolici dichiarati e negazionisti sul clima, non hanno tardato ad esprimersi contro. Stephen Moore, un economista cattolico, definisce Francesco “un autentico disastro, parte di un movimento radicale verde anticristiano e anti progresso”. Mentre James Inhofe, il capo della commissione ambiente al Senato americano, ha dichiarato: “Il Papa dovrebbe fare il suo mestiere”. Jeb Bush, cattolico e candidato repubblicano per la presidenza americana, ha affermato che non intende lasciarsi dettare strategie economiche dal Papa e che la religione non dovrebbe riguardare la sfera politica.

 




Omelia per la Chiusura dell’Anno della Misericordia (13 novembre 2016)

Chiusura anno della misericordia
Cattedrale San Zeno 13 novembre 2016

Le letture di questa XXXIII° domenica del tempo Ordinario ci mettono di fronte al misterioso dipanarsi della storia degli uomini.

La storia ha avuto un inizio. Avrà un termine. Al centro c’è l’Incarnazione del Verbo di Dio, la sua passione, morte e risurrezione con l’effusione dello Spirito. Tutto ciò che è accaduto prima è stato preparazione e anticipazione. Tutto ciò che è accaduto dopo e oggi sta succedendo ne è compimento ed esplicitazione. Finché arriverà quell’ultimo giorno nel quale tutto sarà ricapitolato in Cristo (Ef l, l0), quando Egli ritornerà per giudicare i vivi e i morti e il suo Regno non avrà fine e “lo stesso universo, liberato dalla schiavitù della corruzione, parteciperà alla gloria di Cristo con l’inaugurazione dei «nuovi cieli» e di una «terra nuova» (2 Pt 3,13).

Guardiamo avanti, allora carissimi fratelli e sorelle! Solleviamo gli occhi verso l’orizzonte! Protendiamo i nostri occhi verso il futuro nell’attesa del ritorno glorioso di Cristo. Desiderando e pregando che quel giorno finalmente venga! Questa nostra assemblea terrena è protesa verso quel giorno, ad esso guarda con speranza e al tempo stesso con tremore, perché se è vero che Dio è infinita misericordia e chi confida sinceramente in Lui non può perdersi, è altrettanto vero che l’amore infinito di Dio, per chi non ha usato misericordia al suo prossimo in questo mondo, per chi ostinatamente ha rifiutato l’amore e si è voltato dall’altra parte rispetto a Dio e agli altri, sarà strazio e dolore, insopportabile abbraccio, maledizione e rovina. Come già oggi, del resto, già su questa terra, l’indifferenza e l’odio sono un inferno di solitudine e violenza.

In quel giorno “rovente come un forno”, secondo l’espressione usata dal profeta Malachia nella prima lettura, nel giorno cioè del ritorno glorioso di Cristo, avverrà il Giudizio finale. Come ci dice il Catechismo della Chiesa Cattolica, “Per mezzo del suo Figlio Gesù, Dio Padre pronunzierà allora la sua parola definitiva su tutta la storia. Conosceremo il senso ultimo di tutta l’opera della creazione e di tutta l’Economia della salvezza, e comprenderemo le mirabili vie attraverso le quali la Provvidenza divina avrà condotto ogni cosa verso il suo fine ultimo. Il Giudizio finale manifesterà che la giustizia di Dio trionfa su tutte le ingiustizie commesse dalle sue creature e che il suo amore è più forte della morte”.

Prima di quel giorno tremendo e beatissimo, ecco allora il dipanarsi della storia, lo scorrere del tempo, tra avvenimenti, fatti e circostanze che mostrano chiaramente l’incerta risposta dell’uomo alla misericordia di Dio e la necessità della conversione. Quanto è descritto nel brano evangelico odierno fotografa per così dire la storia di tutti i tempi. Sicuramente vi si fa riferimento alla distruzione del tempio nel 70 D.C., ma la descrizione finisce per abbracciare ogni momento della storia, ogni epoca. I drammatici eventi narrati sono il segno della necessità del ritorno di Cristo e della improcrastinabile necessaria accoglienza di Cristo nel cuore dell’uomo. Mostrano che la storia non trova la soluzione alle proprie contraddizioni al di dentro di se stessa; essa è invece redenta soltanto dalla grazia di Cristo, dalla sua passione, morte e risurrezione che passa anche attraverso il martirio dei discepoli di Cristo.

Le profetiche e drammatiche affermazioni di Cristo su ciò che capiterà ai suoi discepoli, sull’odio del mondo che si scatenerà contro di essi e sulla inevitabile persecuzione, ci fanno capire che la testimonianza dei discepoli fino all’effusione del sangue, si unisce a quella di Cristo, anzi, è raccolta nel sangue stesso di Cristo versato sulla croce, e in questo modo è resa misteriosamente necessaria per il riscatto della storia, affinchè la storia degli uomini, pur cosparsa di lutti, di violenze e segnata dal peccato, sia storia di salvezza e già edificazione silenziosa ma certa del Regno di Dio.

Carissimi fratelli ed amici, la consapevolezza della sorte che, secondo le parole di Cristo ci attende, non ci deve intimorire, né raffreddare nella gioia dell’annuncio del Vangelo. Al contrario, deve essere per noi motivo di letizia e di sereno conforto, perché “nemmeno un capello del nostro capo andrà perduto”, come abbiamo sentito da Gesù nel brano evangelico. Abbiamo la certezza, assoluta, gioiosa, feconda che ai misericordiosi è usata e sarà usata misericordia. Perché dunque temere, fratelli e sorelle? Perché non desiderare con tutto il cuore che “venga la grazia e passi la figura di questo mondo” (Didakè, 10)? Perché non guardare avanti con fiducia e affrontare le vicende della storia senza sgomento e lamentele, bensì col coraggio della fede, la forza della speranza, l’ardore della carità?

San Paolo nella seconda lettura ci ha esortato a non restare oziosi. Ci ha invitato piuttosto a darci da fare, a impegnarci, a lavorare. E io vedo in questo invito il mandato che ci viene affidato al termine dell’anno straordinario della Misericordia. Stasera si chiude nelle diocesi del mondo questo anno particolare, ma perché tutti gli anni a venire si aprano nel segno della misericordia ricevuta e donata. Si chiude la porta santa del giubileo, ma perché ognuno di noi sia porta attraverso la quale gli altri possano entrare e trovare spazio di accoglienza; si chiude un tempo speciale, ma perché ogni giorno sia tempo speciale e tutta la storia contemporanea, la nostra storia, attraverso il sangue di Cristo mescolato col nostro, diventi storia di salvezza.

Lavoriamo e fatichiamo senza sosta dunque fratelli e sorelle, colorando di misericordia tutti i nostri giorni futuri. Non passi giorno senza aver invocato su di noi e sul mondo la misericordia di Dio; non tramonti il sole sulle nostre giornate, senza che di questa misericordia ne abbiamo fatta esperienza!

Ricordiamocelo: c’è ancora chi ha fame e sete, che addirittura muore di fame e di sete, e attende di essere sfamato; c’è ancora chi è nudo e aspetta di essere rivestito di abiti e dignità; c’è ancora chi fugge da casa, è migrante e pellegrino e ha da essere accolto; ci sono malati da visitare e a cui permettere l’accesso alle cure; carcerati per cui cercare un futuro di speranza; ci sono morti da seppellire con pietà e rispetto; c’è una terra, la “casa comune dell’uomo” che ha da essere salvaguardata e custodita. E poi ci sono ancora disperati e afflitti che cercano consolazione; chi si macera nell’incertezza sulla propria esistenza e attende chi sappia consigliarlo da vero amico; ci sono quelli che non sanno, non conoscono, e hanno bisogno di imparare a gestire la propria vita e a mettere a frutto i propri talenti; ci sono persone rese fastidiose o odiose dalla propria storia che attendono chi sappia accoglierle con pazienza e disponibilità o le sorprenda col perdono senza contraccambio; c’è chi vive nella disobbedienza alla santa legge di Dio e ha bisogno di qualcuno che glielo dica con discrezione e amorosa sincerità; c’è infine un’intera umanità di vivi e di morti che aspettano l’intercessione dei fratelli, il sostegno di un ricordo, il dono di una preghiera.

Quanto c’è da lavorare ancora, fratelli miei carissimi! Quanto ancora dobbiamo darci da fare per il Regno di Dio! Se è vero, com’è vero, che tutto è Grazia e che non siamo certo noi a salvare il mondo, è vero anche però che Dio ci chiede di fare la nostra parte, di dare tutto ciò che possiamo, perché è “con la perseveranza, salveremo la nostra vita”, come ci ha detto Gesù. Soprattutto ci chiede di avere un cuore nuovo, misericordioso come il suo.

Davvero non è terminato l’anno di grazia del Signore, carissimi, l’anno santo della misericordia, il tempo per imparare a essere “misericordiosi come il Padre”! L’anno della misericordia non finisce stasera ma piuttosto continua per diventare storia personale di ciascuno di noi e storia del mondo, nell’attesa del ritorno glorioso di Cristo alla fine dei tempi.

+ Fausto Tardelli, vescovo




Omelia in occasione del Pellegrinaggio Diocesano Giubilare (1 ottobre 2016)

Pellegrinaggio Roma
1 ottobre 2016

“Sia benedetto Dio Padre del Signore nostro Gesù Cristo; nella sua grande misericordia egli ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per una eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce.”

Così ci ha detto poco fa l’apostolo Pietro. Sì. Sia benedetto Dio per il suo amore senza confini e limiti. Sia benedetto Dio perché siamo qui, così tanti, chiesa di Pistoia, raccolta nell’unità, con me vostro vescovo, coi presbiteri e i diaconi, attorno all’altare della cattedra di S.Pietro e del suo successore il Papa.

È un segno della Misericordia di Dio, il nostro essere qui a manifestare la nostra fede, esprimere la nostra speranza, animarci alla carità più generosa. Sia benedetto davvero Dio, ora e sempre. Dalle nostre bocche oggi esca un canto di gratitudine, di riconoscenza, di lode per aver fatto di noi il suo Popolo santo. È una vera grazia, fratelli e sorelle carissimi, credetemi, essere parte della Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica; un solo gregge sotto un solo pastore, col Papa e i vescovi, coi laici, i presbiteri, i diaconi, i religiosi e le religiose. Godiamo fratelli e sorelle, di essere la chiesa del Signore. Quella fondata da Gesù Cristo, quella che ha attraversato i secoli, quella che nei suoi figli peccatori è stata imbrattata di sporcizia, ma anche quella che ha brillato e brilla per la sfolgorante candida schiera dei martiri, dei confessori della fede, dei santi e delle sante di ogni tempo. Quella di sempre e quella sempre nuova che si rinnova oggi sotto la guida di Papa Francesco.

Assaporiamo, fratelli e sorelle la gioia di sentirci corpo del Signore, sua famiglia, suo popolo! Troppe volte noi pensiamo alla chiesa come a qualcosa che ci sta di fronte, dimenticando che la chiesa siamo noi, tutti noi. Troppe volte ci lamentiamo della chiesa o di alcune sue vicende storiche o sue mancanze, senza considerare che è comunque una grazia incommensurabile appartenere a questo popolo di peccatori e santi. Troppe volte vorremo una chiesa come pare a noi, mentre la chiesa non può essere altro che come l’ha voluta il Signore Gesù, posta cioè sul fondamento degli apostoli.

Quest’oggi, alle critiche, ai distinguo, alle prese di distanza e alle riserve, deve far posto la gioia e la gratitudine di essere chiesa, di essere popolo di Dio, nel modo che Cristo ha voluto. E di esserlo inoltre nelle nostre terre pistoiesi, pratesi, fiorentine, chiesa particolare riunita intorno al successore degli apostoli che è il vescovo.

Ma perché la gioia continui e si approfondisca e non tornino sempre fuori le lamentele dell’uomo vecchio e triste, carissimi amici, il Signore Gesù ci ha dato una indicazione chiara. L’abbiamo ascoltata nel vangelo secondo Giovanni: “Rimanete nel mio amore. Osservate i miei comandamenti e amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi.”
Il segreto della gioia sta nel rimanere dentro il Signore, nel fare dimora nella sua vita, nello stare con Lui ad ascoltare la sua voce, a commuoversi alle sue parole, a cibarci di Lui e a rimanere in adorazione del suo amore. E nello stesso tempo sta nel mettere in pratica i suoi comandamenti, primo fra tutti quello dell’amore fraterno.

Come potrà essere la nostra, una chiesa della gioia, una chiesa che trasmette gioia, la gioia del Vangelo, come dice Papa Francesco; come potranno essere le nostre parrocchie, le nostre comunità, i nostri gruppi, testimonianza di gioia, irradiazione di gioia vera, non quella artificiale e artefatta che da il mondo, se non rimaniamo nel Signore, se non sostiamo in Lui, se Lui non è al centro della nostra vita, delle nostre iniziative, dei nostri impegni e se non ci mettiamo seriamente a praticare il suo comandamento che ci dice di amarci esattamente come Lui ha amato e ama noi? Perciò, cercare di rimanere con tutto noi stessi nel Signore, amandoci come veri fratelli e quindi irradiando nel mondo la gioia del Vangelo, dev’esser l’intendimento di ogni programma o progetto pastorale, di ogni iniziativa e azione pastorale. Se così non fosse, sarebbero tutte chiacchiere inutili.

Tra poco sarò ben felice di dare un mandato ufficiale in primo luogo ai catechisti e poi anche a tutti i responsabili e operatori pastorale presenti. È particolarmente bello che questo gesto si ponga proprio qui, al centro della cristianità, sulla tomba dell’apostolo Pietro, nel luogo dove egli fu martirizzato e rese la sua testimonianza. Ma anche in questo caso, abbiatelo a mente voi che ricevete il mandato, il succo del vostro servizio è trasmettere la gioia dell’incontro con Cristo, la gioia di Colui che è la via, la verità e la vita, l’unico Salvatore. Il vostro servizio nasce perciò dal rimanere in preghiera con il Signore ad ascoltare la sua parola, sotto la guida del magistero; mira a comunicare questo invito del Signore a tutti e si testimonia con l’amore verso i fratelli, con l’impegno a far comunione con loro.

A tutte queste considerazioni, vorrei aggiungere, carissimi, ancora un pensiero. Abbiamo attraversato la porta Santa nell’anno che Papa Francesco ha dedicato, con sapiente intuizione, alla misericordia, da ricevere e da donare. Ecco allora che noi siamo qui oggi anche per impegnarci solennemente a essere misericordiosi come il Padre. E lo facciamo partendo da una constatazione: che noi non siamo misericordiosi come dovremmo essere. Lo dobbiamo però diventare. Il fatto è che spesso non ci sopportiamo l’un l’altro, siamo gelosi, invidiosi, ci poniamo davanti al nostro prossimo come quelli che non sbagliano mai, non siamo pronti a comprendere le ragioni dell’altro. Nel nostro cuore tante volte non c’è amore ma rabbia, scontento, cinismo, pregiudizio, indifferenza. E quindi non fioriscono le opere di misericordia, oppure sono solo un passatempo. Così chi ha fame e sete non ha risposte; chi è pellegrino e migrante non trova ospitalità; chi è malato o in carcere rimane solo; chi è nel dubbio, nel pianto, nell’ignoranza o nel peccato non trova chi si prenda cura di lui; le offese non ottengono perdono e non c’è pietà né per i vivi né per i morti.

Noi siamo qui però, carissimi fratelli e sorelle per dire che invece vogliamo essere misericordiosi come il Padre nostro che è nei cieli, non confidando certo nelle nostre forze ma proprio nella sua misericordia. Decisamente vogliamo incamminarci sulla via della misericordia. Ognuno facendo quello che può, ma sicuri che se ci raccomandiamo allo Spirito Santo, il nostro cuore sarà trasformato, a poco a poco cambierà e da cuore di pietra diventerà di carne e saremo in grado di ascoltare il grido dei poveri e di chi è nel bisogno, sia materiale che spirituale, rispondendovi con la fantasia della carità.

Il mondo ha un assoluto bisogno di misericordia. Ha un bisogno estremo di scoprire l’amore di Dio, che è Padre misericordioso pronto a perdonare e abbracciare i suoi figli smarriti. Questo mondo ha bisogno d’amore, oggi più che mai. Di verità e di amore, che sono poi la stessa cosa. Lo vediamo bene in questi nostri giorni segnati da tante menzogne e da violenze di ogni genere. A noi, pur con tutte le nostre fragilità e contraddizioni, il compito di gettare in questo mondo un po’ dell’amore del Signore.

+ Fausto Tardelli, vescovo