Veglia Pasquale 2019

Veglia pasquale

Sabato Santo 20 aprile 2019

 

Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto.

Come abbiamo sentito nel vangelo, con queste parole gli angeli annunciarono la risurrezione di Gesù alle donne impaurite che si erano recate al sepolcro, il giorno dopo il sabato, per terminare i riti della sepoltura.

Gli angeli, rappresentati dal diacono che ha proclamato il vangelo dal bordo dell’ambone, una specie di sepolcro vuoto, quelle stesse parole stasera le hanno dette a noi. Sono per noi, sono rivolte a noi: “Perché fratelli e sorelle, cerchiamo tra i morti Colui che è risorto?”. Domandiamocelo. Questa domanda ci scuota stanotte e ci rinnovi profondamente: “Perché cerchiamo tra i morti Colui che è vivo?”.

In effetti, a ben pensarci, riflettendo con attenzione, è vero: noi e il nostro mondo, cerchiamo spesso la vita nei sepolcri, laddove cioè c’è morte, non vita. Noi desideriamo la vita non c’è dubbio, e la vorremmo piena, gioiosa, ricca, soddisfacente; vorremmo star ben, da tutti i punti di vista. È un’aspirazione profonda che ci muove, ci spinge, determina le nostre scelte. Abbiamo sete di vita, bramiamo la vita.

Ma cosa accade però spesso? Pensiamoci un attimo. Accade che la vita la andiamo a cercare nei posti sbagliati: la si cerca nel malaffare, nella corruzione, negli imbrogli, nelle menzogne, nella disonestà, nella dipendenza dal gioco, da sostanze, dal sesso; oppure nel dominio e nello sfruttamento degli altri, nell’essere “qualcuno” sopra gli altri; nei piccoli o grandi poteri e, più di ogni altra cosa, nel denaro.

Ma tutte queste cose, nelle quali il mondo pensa di trovare la vita, in realtà, sono dei veri e propri sepolcri pieni di morte. Vi troviamo la peggiore morte, quella dell’anima, ma anche la morte della nostra coscienza e della nostra umanità. La disumana violenza che infesta il mondo e la distruzione del creato sono l’amaro prezzo che si paga inseguendo queste cose, lasciandosi prendere dall’illusione che attraverso di esse, la nostra vita possa essere davvero piena e felice. Quando si ripone la nostra speranza in esse, si finisce però sempre per restare delusi. Il risultato è una società senza più speranza, senza prospettive vere, dove, inevitabilmente, aumentano le paure. Ogni cosa finisce per farci ombra, per metterci in ansia; addirittura finisce per terrorizzarci, spingendoci alla difensiva, pronti a colpire, perché gli altri diventano tutti dei potenziali nemici. Le speranze deluse generano facilmente rabbia, risentimento, rancore, a volte un terribile gioco al massacro.

E allora? Allora, carissimi amici, diamo piuttosto retta agli angeli di cui ci ha parlato il Vangelo stanotte: non cerchiamo la vita tra i sepolcri; non cerchiamo la vita in ciò che è morto e dà la morte.

Dove trovarla allora? È possibile trovarla ed esserne riempiti? Si, è possibile. La vita vera non è un oggetto, non è una cosa, non un’idea, un concetto; non è verità astratta, né una sensazione, un’emozione; non è nemmeno una scarica di adrenalina o il piacere di un momento. No, la vita vera è una persona. È la persona del Risorto. Una persona concreta, che ha il volto di un uomo concreto, Gesù Cristo, il quale ha vissuto una vita d’uomo in una terra precisa, insieme a persone che lo hanno amato o odiato; un uomo che fu appeso ad un legno, ma che il terzo giorno è risorto perché era Dio con noi. Una persona che molti hanno incontrato vivente, al punto di decidere di giocare, di scommettere tutta la propria vita su di Lui.

Carissimi amici, a Pasqua non celebriamo la risurrezione come un evento del passato, relegato in un angolo della storia. Noi celebriamo “il Risorto”, vivo e vero, presente in mezzo a noi. Si, qui in mezzo a noi! Si, perché se mi dite, ma dove mai possiamo incontrare questo Cristo risorto, pienezza di vita, datore di vita, io vi rispondo con molta semplicità ma con la convinzione più profonda del cuore, che Egli è qui. Non occorre andarlo a cercare chissà dove: è in mezzo a noi, stasera; più vivo che mai. È qui con noi, ci parla e ci conforta, ci invita a non temere per la nostra vita, se l’affidiamo a lui e la doniamo con Lui; ci fa capire che dobbiamo smetterla di cercare tra i morti la vita per abbracciare invece Lui, via, verità e vita; ascoltare la sua parola che è viva ed efficace; mangiare il suo corpo che è pane della vita eterna; bere il suo sangue che è bevanda di vita eterna. Il Risorto non è lontano da noi. Lo possiamo incontrare, oggi, stanotte e lo possiamo accogliere nella nostra vita. Egli ci dice inoltre che è presente nel volto dei nostri fratelli più poveri e bisognosi e che se vogliamo trovare la vita vera, non dobbiamo cercarla nei sepolcri dei nostri egoismi, bensì aprendo le braccia dell’amicizia agli altri, senza distinzioni di lingua o nazione, di estrazione sociale o di religione.

La vita va cercata, carissimi amici, nella sequela di Gesù, nel vivere con lui da risorti. Ponendo la nostra vita nella sua, noi diamo fondamento certo alla nostra speranza, perché colui che ha vinto la morte e insieme ha vinto la cattiveria degli uomini, è l’unico che può dare compimento alle nostre aspettative più profonde. Lui ci offre le garanzie più solide di poter vincere anche noi il male e la morte e giungere così alla felicità dell’amore donato e ricevuto.

E a voi, carissimi, che stanotte diventate cristiani; che sarete sepolti nella morte di Cristo per risorgere con Lui a vita nuova attraverso le acque del Battesimo, dico: abbracciate Cristo con tutta l’anima, con tutto il cuore, con tutto voi stessi; abbracciatelo come l’unica speranza che non delude; abbracciatelo con gioia, rinunciando al peccato e decidetevi di seguirlo per tutta la vostra vita, percorrendo quella via dell’amore per Dio e per il prossimo che Lui ci ha insegnato. Noi qui presenti, chiesa di Pistoia, mentre rinnoviamo le promesse del nostro battesimo, preghiamo per voi e invochiamo su di voi il dono dello Spirito perché non vi sentiate mai soli ma parte viva della Chiesa e siate fedeli ogni giorno al dono ricevuto.




Omelia della Santa Messa Crismale 2019

Omelia della Santa Messa Crismale 2019

Cattedrale di San Zeno

 

«Carissimi presbiteri, in questa Santa Messa crismale, vorrei rivolgermi quest’anno soprattutto a voi. Anche a me stesso naturalmente, dal momento che condividiamo lo stesso sacramento dell’Ordine.

Al popolo di Dio che è qui, alle famiglie, ai laici tutti, ai ragazzi che faranno la Cresima in quest’anno e che sono qui presenti, dico: lasciate che stasera parli in particolare ai vostri sacerdoti: essi sono chiamati ad essere in mezzo a voi segno di Cristo Buon Pastore e proprio per questo, parlando a loro, penso anche al bene di tutti voi.

Dunque, carissimi amici e fratelli nel sacerdozio ministeriale, una semplice e disarmante verità mi preme richiamare ora alla nostra mente e al nostro cuore: la meta della nostra vita è la santità e non qualcosa di meno. La santità è la realizzazione del disegno di Dio su di noi, è la realizzazione della nostra vita; è la nostra aspirazione più profonda e il dono grande che riceviamo da Dio e a cui dobbiamo corrispondere.

E allora ripartiamo da lì, carissimi amici, proprio dal dono di Dio che è la nostra chiamata. Ripartiamo dal giorno in cui fummo concepiti nel seno di nostra madre e ancor prima pensati da Dio come suoi ministri, per un suo imperscrutabile disegno. Cresciuti, udimmo la sua chiamata; confusa, incerta, mescolata ad altre voci, ma la udimmo. Non sapevamo bene che cosa ci chiedesse, che cosa volesse dire; fummo attratti in qualche modo dalla vita sacerdotale; forse, nel nostro desiderio si mescolavano debolezze e fragilità; ma noi quella voce la udimmo e ci affascinò. Non lo possiamo negare. Lasciammo ogni cosa per seguire quella voce; abbandonammo familiari e casa, amici e compagni per incamminarci con l’entusiasmo e insieme le contraddizioni dell’età giovanile, verso il sacerdozio. Ricordate amici carissimi, il tremore del giorno dell’Ordinazione? L’emozione della Prima Messa, mentre la gente ci si faceva intorno festante e ci significava in mille modi, con preghiere e doni, il suo affetto? Ma soprattutto, ricordiamo amici carissimi quel dialogo interiore che in quei giorni intrattenevamo con il Signore, al quale donavamo con sincera volontà tutta la nostra vita, rinunciando a farci una nostra famiglia, a un affetto particolare, ad avere dei figli nostri, a realizzare progetti di vita nostri? Volevamo soltanto seguire Gesù ad ogni costo e spendere la nostra vita per il bene delle anime. Allora non ci pesò fare il passo, perché ci sentivamo abbracciati dall’amore di Dio; sentivamo che Lui era con noi e non ci avrebbe mai abbandonato. Forse presumevamo anche un po’ delle nostre forze e il tempo ci avrebbe fatto sperimentare la nostra povertà.

Riandiamo però stasera con gioia, con gratitudine, con riconoscenza a quei giorni in cui il nostro giovane cuore incontrò il Signore e si sentì avvolto dal suo amore. Lui è ancora con noi e ci sceglie, sempre di nuovo. Lo fa anche stasera, nonostante che gli anni ci abbiano un po’ affaticato e i nostri peccati appesantito. Anche se le esperienze e le delusioni della vita ci possono aver reso a volte cinici o demotivati, ancora il Signore Gesù ci guarda negli occhi, fissa il suo sguardo su di noi e ci chiama nuovamente ad essere suoi apostoli. Continua a fidarsi di noi, si consegna nelle nostre mani e ci dice ancora “voi siete i miei amici, a voi affido il mio gregge, il mio popolo; pascetelo con amore. Rinfrancate il vostro cuore, rinsaldate il vostro spirito e confermate i vostri fratelli: il mio stesso spirito è su di voi.”

Ed eccoci alla seconda cosa che vorrei evidenziare stasera: la bellezza del nostro essere insieme in un unico presbiterio. È un dono straordinario; una esperienza davvero pasquale; una gioia grandissima. Noi non ci siamo scelti; è il Signore che ci ha messo insieme e ha fatto di noi un variegato giardino. Siamo diversi l’uno dall’altro e non è detto che, umanamente parlando, ci stiamo tutti simpatici. Lo sappiamo. Eppure, c’è qualcosa che ci lega e ci unisce, più forte di tutte le nostre divisioni e i nostri isolamenti. Non ce ne accorgiamo? Credo di si; basta un attimo di attenzione per accorgersene. Io, questo legame con voi lo sento. È forte, intenso. A volte è doloroso, come sempre lo è l’amore vero. So quanto dovrei fare di più e quanto di più dovrei essere vicino a ciascuno di voi, alla vostra vita, alle vostre ansie e speranze. Ciononostante, il legame che c’è lo sento ed è forte e ne sono grato al Signore. Cosa sarei senza di voi? Ma credo che sia così anche per ciascuno di voi nei confronti l’uno dell’altro.

Siamo davvero un unico corpo, carissimi amici, pur se con caratteri e sensibilità diverse; siamo tutti alla sequela di Gesù e vogliamo rispondere alla sua chiamata. Siamo sulla stessa barca e questo ci fa accettare di buon grado anche la a volte necessaria correzione fraterna. Siamo una cosa sola: riconoscerlo con gratitudine, fare consapevolmente “corpo”, sentendosi un cuor solo e un’anima sola è necessario oggi più che mai, quando gli attacchi alla nostra vita vengono da molte parti e a volte anche dal di dentro di ciascuno di noi. I tempi non sono facili, sono complicati, contraddittori, sconclusionati. Anche per questo dobbiamo imparare a godere della nostra unità. Di quella comunione che nasce dallo Spirito Santo diffuso nei nostri cuori e dal comune sacramento dell’Ordine ricevuto.

Un’altra cosa ancora vorrei dirvi questa sera, carissimi amici: il popolo di Dio ci aspetta, ci attende; ha bisogno di noi, del nostro zelo, del nostro entusiasmo, ha bisogno della nostra carica interiore, del nostro slancio, della nostra fede, della nostra speranza, del nostro amore. Siamone consapevoli!

Questo popolo chiede di essere radunato in Cristo; chiede di essere difeso dai lupi rapaci che insidiano continuamente il gregge del Signore. Nel popolo di Dio ci sono i piccoli, i giovani, gli sposi, i deboli, i poveri, gli anziani. Ognuno attende da noi una parola di conforto, di incoraggiamento; una testimonianza di generosità e di dedizione, di distacco dai beni terreni; una testimonianza di amore sincero alla chiesa. Oggi poi sono molti coloro che non frequentano la chiesa. Anche nei loro confronti siamo debitori del Vangelo, della comunicazione della bellezza di Gesù e della vita con Lui. Abbiamo una missione che nessun altro uomo sulla terra ha.

Vedete, dar da mangiare a chi ha fame lo possono fare tutti, anche se purtroppo molti non lo fanno e occorre spingere a questo con l’esempio; assistere i malati lo possono fare tutti; lottare per una società più giusta, anche questo lo possono e debbono fare tutti; custodire la casa comune perché sia abitabile e non contaminata, è richiesto a tutti, anche se pure qui lo dovrebbero fare in molti di più. Ma assolvere dai peccati, nessuno al mondo lo può fare, se non voi, per la potenza dello Spirito Santo. Rialzare una persona dall’abisso del male e dalla prostrazione della perdita di ogni speranza donandogli la gioia della grazia di Dio, nessun uomo ha il potere di farlo, se non voi. Nessuno al mondo può dare agli uomini il Pane della vita eterna e il Vino della nuova alleanza; nessuno può dare al mondo la parola della verità che è Dio fatto uomo in Gesù Cristo; nessun uomo ha la potestà di radunare insieme in una famiglia di fratelli, genti diverse per etnia, cultura, condizione social. Nessuno, se non voi, se non noi, per la misericordia di Dio e non certo per i nostri meriti. Se a volte siamo derisi o non capiti, se ci sembra di perdere tempo o di essere assolutamente fuori dal mondo, non scoraggiamoci: siamo certi che questa è la chiamata del Signore per cui siamo venuti al mondo e a questa dobbiamo rispondere.

Vorrei concludere queste mie riflessioni invitandovi, carissimi amici e confratelli, a riconoscere anche quanto di bello riceviamo ogni giorno dal popolo di Dio, quel popolo che è qui stasera rappresentato. Siamo debitori nei suoi confronti. Perché questo popolo continua a volerci bene, nonostante tutti i nostri limiti; in genere ci apprezza e ci stima; ci è vicino e persino comprende i nostri difetti. Spesso prega per noi e noi, io in particolare, sentiamo davvero la forza di questa preghiera. Senza, non ce la faremmo mai.

Quanto ci hanno dato le persone che abbiamo incontrato nel nostro ministero, quelle stesse magari che sono state affidate a noi! Si sono rivelate spesso veri strumenti nelle mani di Dio; ci hanno fatto bene e fatto del bene, anche quelle che qualche volta ci hanno fatto soffrire.

Per questo popolo di Dio a cui apparteniamo e di cui siamo parte, noi rivolgiamo stasera una sincera preghiera al Signore; su di esso invochiamo la benedizione del cielo, mentre nuovamente decidiamo di metterci al suo servizio, nel nome del Signore. E questo è anche il senso delle promesse sacerdotali che ora ci apprestiamo a rinnovare».




Morti viventi o risorti?

Venerdì della V° settimana di quaresima – 12 aprile 2019 – Quinta stazione quaresimale

 

L’ultima tappa del nostro cammino quaresimale si conclude con il racconto della risurrezione di Lazzaro, l’amico di Gesù. Il ciclo battesimale delle letture bibliche delle ultime tre settimane di Quaresima, ci ha condotto per mano, prima a riconoscere con la samaritana il bisogno di un’acqua di salvezza che irrighi i deserti della nostra anima e del mondo; poi col cieco nato, a chiedere la luce degli occhi per vedere Dio e il nostro prossimo. Questa sera ci avviciniamo alla Pasqua come al trionfo della vita con la vicenda di Lazzaro.

Il quadro che l’evangelista Giovanni ci presenta è abbastanza straziante. Vediamo le lacrime di Marta e di Maria; la loro angoscia. Vediamo anche l’affetto grande e intenso di Gesù per l’amico. “Allora scoppiò in pianto”: questo particolare della narrazione ce lo manifesta.

Ed ecco che in questo cotesto straziante, Gesù compie il miracolo. Si tratta di un “segno”.

La risurrezione di Lazzaro dunque è solo un segno di una verità più profonda…Quella di Lazzaro non è come la risurrezione di Cristo, né come quella che ci è promessa da Gesù.

Nota magnificamente Joseph Ratzinger nel suo libro “Gesù di Nazaret” (pag. 271-272): «Se nella risurrezione di Gesù si fosse trattato soltanto del miracolo di un cadavere rianimato, essa ultimamente non ci interesserebbe affatto. Non sarebbe infatti più importante della rianimazione, grazie all’abilità di medici, di persone clinicamente morte. Per il mondo come tale e per la nostra esistenza non sarebbe cambiato nulla.

Le testimonianze neotestamentarie invece non lasciano alcun dubbio che nella risurrezione del Figlio dell’uomo sia avvenuto qualcosa di totalmente diverso. …

Nella risurrezione di Gesù è stata raggiunta una nuova possibilità di essere uomini, una possibilità che interessa tutti e apre un futuro, un nuovo genere di futuro per gli uomini».

Queste illuminate riflessioni spiegano ciò di cui la risurrezione di Lazzaro è segno: la risurrezione di Cristo e la nostra vita con Lui.

Ben più di quello che è capitato a Lazzaro, noi infatti siamo stati resi partecipi della Risurrezione di Cristo; mediante il Battesimo, siamo stati sepolti nella morte di Cristo e risorti con Lui. La nostra identità di uomini è ormai quella di risorti con Cristo, ciò per cui siamo venuti al mondo e che ci identifica come uomini.

Questo è vero al punto che se non viviamo da risorti con Cristo, semplicemente non siamo uomini; in realtà neppure siamo vivi. Siamo piuttosto dei morti che camminano per la strada, dei “morti viventi”.

Ma che vuol dire vivere da risorti?

Credo che la risposta a queste domande sia triplice: innanzitutto significa vivere nella gioia, con il cuore pieno di speranza, senza farsi abbattere da niente. Nella gioia cioè di sapere che niente ci può davvero ferire e uccidere, se si rimane attaccati a Gesù Cristo; che le avversità e le contrarietà della nostra esistenza, tutte le croci che in modo o nell’altro costellano i nostri giorni, come pure tutte le fatiche che si incontrano nella testimonianza della fede, tutto, proprio tutto, è illuminato dalla gioia pasquale, dall’incontro col risorto che continuamente ci ripete: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro».(Mt 11,28).

In secondo luogo, per vivere da risorti, occorre nutrirsi di Cristo parola e pane di vita eterna. Gesù lo ha detto a chiare lettere: «In verità, in verità io vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita» (Gv 5,24).

Infine, c’è un terzo modo ancora, fondamentale, per vivere da risorti, ed è l’apostolo Giovanni a dircelo nella sua prima lettera, anche qui con molta chiarezza: «Fratelli, noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte. Chiunque odia il proprio fratello è omicida, e voi sapete che nessun omicida ha più la vita eterna che dimora in lui». (IGv 3, 14-15).

 

 




Un mondo di ciechi

Venerdì della IV° settimana di Quaresima – 5 aprile 2019 – Quarta Stazione Quaresimale

“Un mondo di ciechi”

Il vangelo del cieco nato ci introduce sempre di più nel mistero pasquale. Il Signore infatti, come disse lui stesso nella sinagoga di Nazareth all’inizio del suo ministero, è venuto per dare la vista ai ciechi. Anzi, riprendendo il brano evangelico appena ascoltato, Gesù precisa, sconcertandoci un po’, per la verità: “Io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi”.

Tornerò più avanti su questa enigmatica frase. Intanto però una cosa è certa: ridare la vista ai ciechi è una caratteristica dell’opera del Salvatore che culmina appunto con la Pasqua. Possiamo dunque pensare il mistero pasquale come un evento che toglie il velo dagli occhi degli uomini, che ridà la vista agli uomini, resi ciechi dal peccato.

Nelle vicende pasquali che vivremo tra non molto, la passione e la morte del Signore, come pure la sua sepoltura, sono ben rappresentate dal buio, dalla notte, dall’oscurità: è il trionfo delle tenebre. In quei momenti, tutto il mondo appare avvolto da densa caligine e niente sembra più riconoscibile. Accade qualcosa di atroce che oscura il cuore, facendo morire ogni speranza. Colui che aveva fornito una speranza ad Israele, Gesù, nel quale molti avevano creduto, appare definitivamente sconfitto. L’oscuro signore delle tenebre sembra aver vinto e il mondo degli uomini è cieco, non vede più, non riconosce più il valore delle cose, il volto degli altri; non distingue più il bene dal male perché il bene non risulta più evidente, sembra definitivamente sparito dal mondo.

La luce viene col mattino di Pasqua. Lì tutto è luminosità e chiarore; il Risorto risana gli occhi degli uomini accecati dall’odio, dalle cattive passioni, dall’indifferenza. Gli uomini e le donne cominciano a vedere. La loro vista si acuisce a tal punto da riuscire a vedere anche l’invisibile: vedono il Risorto, colui che è passato dalla morte alla vita; lo riconoscono che cammina con loro e mangia con loro e nello stesso tempo riescono a vedersi tra loro, a riconoscersi e ad abbracciarsi come fratelli. La Verità risplende luminosa e il bene torna a farsi evidente, anche se l’oscurità sconfitta continuerà a insidiare i discepoli che restano nel mondo.

Con la Pasqua accade ciò che nel miracolo del cieco nato si annuncia. Come il cieco passa dalla oscurità alla luce per l’intervento taumaturgico del Cristo, così ognuno di noi, per la passione, morte e risurrezione di Cristo, passa dall’oscurità del male alla luce del bene. Il cieco nato riacquista la vista e riesce così a vedere gli altri e il creato; noi, per la Pasqua, riacquistiamo quella vista spirituale che ci fa riconoscere il Risorto vivo e presente in mezzo a noi, gli altri come fratelli nostri e la storia come storia di salvezza. La vicenda del cieco nato ci fa pregustare la gioia della Pasqua.

Ma stasera siamo ancora in Quaresima e il cammino penitenziale non è ancora terminato. Ed ecco allora che il miracolo della guarigione del cieco, non può non farci riflettere sulle nostre cecità. Perché sia Pasqua per davvero – ci ricorda la liturgia penitenziale della Quaresima – occorre riconoscere le tenebre che sono in noi, che oscurano la nostra coscienza e si allungano come ombre minacciose nella vita di chi ci sta accanto e nella stessa società. E qui allora torna in ballo e si spiega l’enigmatica frase del vangelo che ho citato all’inizio: “Sono venuto, dice il Signore, perché quelli che vedono, diventino ciechi”. Come a dire, sciolto l’enigma: che chi crede di vederci e di vederci bene, mentre non si rende conto della sua cecità, è in realtà il vero cieco perché non vede né Dio né gli altri.

E allora soffermiamoci un attimo a pensare alle nostre cecità, perché non vorremmo meritarci il rimprovero che Gesù rivolge ai farisei, come abbiamo sentito nella conclusione del vangelo di questa sera: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane.”

Allora no. Noi non vediamo. Lo vogliamo riconoscere. Non ci vuol molto a capirlo del resto. Basta un attimo di attenzione per capirlo. Quante volte infatti il Signore si affaccia nella nostra vita, si fa presente nelle pieghe della nostra esistenza, negli avvenimenti che ci capitano e non lo vediamo! Quante volte Egli non c’è nella nostra vita; per noi è assente; non ci accorgiamo di Lui, delle sue premure, dei suoi rimproveri. Quante volte non lo riconosciamo nei segni sacramentali, perché la nostra fede è fiacca e li trasformiamo in gesti vuoti o magici. Quante volte non lo vediamo presente in mezzo a noi, vivo e reale, Risorto e datore di vita e riduciamo il nostro radunarci a un semplice convenire umano o a una occasione di scontro tra di noi. Quante volte infine non lo riconosciamo nel volto degli altri, della sposa, dello sposo, del figlio, dell’anziano, oppure del povero all’angolo della strada, del migrante, del rifugiato, persino del nemico!

Se poi allarghiamo lo sguardo, bisogna constatare che per certi versi si vive oggi in un mondo di ciechi, perché non si riesce più nella nostra società a cogliere l’evidenza del bene che non è più evidente a molti e lo si scambia facilmente per male o infelicità. Ciechi e guide di ciechi, verrebbe da dire. Per cui non si riesce più a scorgere né la presenza di Dio Padre buono e provvidente, né la dignità inalienabile della persona umana dal concepimento fino alla sua morte naturale, né il valore fondamentale della famiglia fondata sul matrimonio; e quel che è peggio, la menzogna la fa da padrona in ogni aspetto della vita sociale; tutto viene manipolato a proprio uso e consumo per piegarlo ai propri interessi, a volte affermando nello stesso tempo una cosa e il suo contrario, in una contraddizione palese ma tranquillamente nemmeno avvertita. Accecati dalle passioni, accecati dalle voglie, accecati dai desideri irrefrenabili, dalla rabbia e da un narcisismo senza limiti: questo sembra il quadro drammatico della nostra società.

In essa, carissimi fratelli e amici, ognuno di noi è  chiamato a una conversione profonda del cuore, così da poter dire col cieco nato, con umiltà ma insieme forza e determinazione: “Solo una cosa so: ero cieco e ora ci vedo”. E se qualcuno, preso dalla rabbia per la nostra vista riacquistata, ci vorrà far tacere dicendo come al cieco “Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?”, noi risponderemo che si, è vero, siamo nati nei peccati e conosciamo il peccato, ma il Signore ci ha usato misericordia perché tutti potessero avere speranza. E se anche ci cacceranno fuori dalla società, sempre come accadde al cieco del vangelo, tacciandoci magari di medievali e antiscientifici, noi ce ne andremo contenti perché sappiamo con San Francesco che lì sarà perfetta letizia.




Dammi da bere

Venerdì della III° settimana di quaresima – 29 marzo 2019. Terza stazione quaresimale (24ore per il Signore)

“Dammi da bere”

In queste ultime 3 stazioni quaresimali, seguendo quello che ci consente la liturgia, celebriamo l’Eucaristia con le letture del ciclo domenicale A, per cui abbiamo stasera la storia della samaritana, venerdì prossimo quella del cieco nato e il successivo quella di Lazzaro. Un percorso tipicamente pasquale che ci introduce direttamente nel mistero della nostra salvezza.

Che dire della storia della samaritana? Il bellissimo testo giovanneo ci presenta un dialogo straordinario tra Gesù che, stanco, si ferma al pozzo di Giacobbe, e questa donna samaritana dai molti mariti, che va ad attingere acqua.

Un dialogo incalzante, dove Gesù si mostra quel fine pedagogo che è. Un colloquio di salvezza, perché conduce pian piano la donna alla luce della conversione, alla gioia di una scoperta che rinnova profondamente la sua vita e la rende testimone gioiosa del Messia.

Un dialogo, nel quale possiamo benissimo entrare anche noi, nel senso che possiamo benissimo ritrovarci nei panni di questa donna che incontra il Signore. In effetti, il Signore anche con ciascuno di noi intesse un colloquio. Tutta la nostra vita diciamo pure che è un dialogo con Lui. Un dialogo di salvezza. Fin dal seno materno. Ancor prima addirittura che fossimo formati nel seno di nostra madre, Dio ci ha chiamato, ci ha interpellato, è entrato in dialogo con noi. Possiamo anzi ben dire che noi esistiamo proprio perchè Dio ci ha rivolto la parola, ci ha chiamato dalle tenebre del nulla all’esistenza. Noi siamo “costituiti” da questo dialogo che Dio intesse con noi per condurci vita piena, alla pienezza della comunione, facendoci superare quell’afasia, quella mancanza di parola e di comunicazione, quella incapacità di dialogo che caratterizza il peccato e una vita nel peccato.

Il dialogo di salvezza di Dio con ciascuno di noi, si è reso visibile in Gesù Cristo, parola vivente di Dio eterno. Verbo eterno del Padre, Egli ha preso carne umana per entrare in dialogo concreto con noi a partire dalla nostra stessa carne, dalla nostra stessa esperienza umana. In fondo, la vita di Cristo sulla terra, che cosa è stata se non un dialogare continuo con noi uomini? Se non un entrare in una conversazione umana per condurci attraverso il suo dialogare con noi uomini, con noi peccatori, sbandati, refrattari e dal cuore indurito, oltre il peccato; per farci entrare in quel divino colloquio che intercorre tra le persone della stessa indivisa Trinità?

E così, ognuno di noi vive questo dialogo con il Signore per tutta la sua vita. Lui ci parla, ci incontra, attende risposta; aspetta le nostre lentezze; tace silenzioso per rispettare la nostra libertà, pronto però a rivolgerci ancora la parola, per spronarci ad essere nuovi, a riprendere in mano la nostra vita, a camminare dietro a lui nella gioia che si fa amore verso i fratelli. Tutto ci parla di Lui; in ogni uomo è Lui che ci parla; così nelle Sacre Scritture come nei santi sette segni; così nell’intero creato e nella storia.

Vivere questo colloquio a tu per tu col Signore, accettare di dialogare con lui, dicendogli ciò che siamo, ciò che desideriamo, i nostri turbamenti e le nostre miserie; ascoltando la sua parola vivificante che penetra fin nel midollo delle nostre ossa, discutendo anche con lui quando ciò che accade ci risulta incomprensibile e persino inaccettabile, tutto questo è la dinamica profonda della vita cristiana, e nel mantenere vivo questo dialogo col Signore, come fa, pur con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni, la donna samaritana, c’è la via della nostra salvezza.

Nel dialogo con la donna di Samaria vorrei ora brevemente soffermarmi sull’inizio. Su quella prima parola che Gesù le rivolge: “Dammi da bere”. Una richiesta che dobbiamo sentire rivolta a ciascuno di noi stasera. Particolarmente vorrei sottolineare il fatto che questa richiesta il Signore Gesù tante volte ce la rivolge attraverso gli altri, attraverso cioè chi è nel bisogno e ha sete, è affamato, nudo, ammalato, carcerato o pellegrino, oppure dubbioso, afflitto, nell’ignoranza o nel peccato. Rispondere a questa richiesta è dialogo di salvezza per noi: gli altri infatti sono sempre coinvolti nel dialogo tra noi e Dio. Inevitabilmente, necessariamente coinvolti. Non c’è dialogo col Signore che non includa anche i fratelli.

La sete, la fame, l’indigenza, la sofferenza di chi è nel disagio, qui da noi e nel mondo, allora non può lasciarci indifferenti. Se così fosse, sarebbe davvero una falsità essere qui e celebrare devotamente l’Eucaristia; sarebbe un falso dialogo col Signore: un dialogo menzognero; una contraddizione in termini.

Domandiamoci allora se almeno ci accorgiamo della sete che c’è intorno a noi, del bisogno che c’è in coloro che ci circondano, a partire da chi ci sta accanto, per arrivare fino alle necessità di chi abita lontano da noi. Bisogno di sostegno materiale certo ma anche e soprattutto di sostegno spirituale. Sete di acqua che disseta il corpo e di pane che lo nutre ma anche sete e fame della parola di Dio, perché “non di solo pane vive l’uomo”. Sete di acqua che si attinge ai pozzi della terra ma anche e soprattutto direi, sete di acqua viva che si attinge dal costato di Cristo. Rientrando in noi stessi, forse ci accorgeremo di quanti poveri lazzari bussano alla porta del nostro cuore e quanto invece questa porta rimanga chiusa o, nel migliore dei casi, socchiusa. Il Signore però nei nostri fratelli, insiste: “Dammi da bere” e sulla croce, la domanda è ancora più stringete: “Ho sete”. Chiediamo allora stasera allo Spirito Santo che ci apra gli occhi per vedere la sete che c’è attorno a noi e chiediamogli che questa sete ci tocchi profondamente e ci inquieti, di una santa inquietudine. E lo Spirito ci faccia anche capire che noi chiesa, noi cristiani, se da una parte ci dobbiamo impegnare con ogni uomo di buona volontà perché tutti abbiano su questa terra il necessario per vivere dignitosamente, dall’altra siamo chiamati a dare al mondo quell’acqua viva che è Cristo, quell’acqua che risana l’uomo dalle ferite del male e che lo rende “creatura nuova”.




Il fratello ingombrante

III° venerdì di quaresima 21 marzo
Seconda Stazione Quaresimale (Chiesa di Santa Maria Liberata – Chiesa di San Bartolomeo Apostolo)

“Il fratello ingombrante”

La storia di Giuseppe venduto dai fratelli è tristemente attuale, sempre attuale direi, nella storia del mondo. Dal tempo di Caino e Abele, il fratricidio o il rifiuto del fratello segna le vicende umane; le tinge drammaticamente di sangue. Sarà anche per questo, per indicare una via diversa possibile che Gesù, tra i suoi apostoli volle ben due coppie di fratelli? Forse, chissà.

Comunque è così: la cronaca del mondo è piena di fratelli che odiano i fratelli. E il motivo? Ascoltiamo il testo della genesi: «Israele amava Giuseppe più di tutti suoi figli, perché era il figlio avuto in vecchiaia, e gli aveva fatto una tunica con maniche larghe. I suoi fratelli, vedendo che il loro padre amava lui più di tutti i suoi figli, lo odiavano e non riuscivano a parlargli amichevolmente». Il motivo dunque è evidente: l’invidia. E’ sempre così. E’ l’invidia che fa maturare l’odio e pone le basi anche dell’uccisione. Anche se non sempre arriva a quel punto, come si vede nel racconto che abbiamo ascoltato, dove Giuda mostra un qualche sentimento e convince gli altri a non uccidere Giuseppe ma a venderlo, senza che questo non sia ugualmente grave.

Ebbene si, l’invidia. Ci sembra a volte che non sia niente, o sia cosa di poco conto; la declassiamo facilmente a semplice immaturità psicologica e tendiamo a sminuirla o a non riconoscerla in noi. Difficilmente si ammette di essere invidiosi. L’invidia invece è un grande peccato e un vizio capitale. Essa (Dice il Catechismo della chiesa cattolica 2539 – 2540) «Consiste nella tristezza che si prova davanti ai beni altrui e nel desiderio smodato di appropriarsene, anche indebitamente». Quando arriva a volere un grave male per il prossimo, l’invidia diventa peccato mortale: Sant’Agostino vede nell’invidia «il peccato diabolico per eccellenza». e San Gregorio Magno dice che «dall’invidia nascono l’odio, la maldicenza, la calunnia, la gioia causata dalla sventura del prossimo e il dispiacere causato dalla sua fortuna».

E perché si è invidiosi? E’ semplice: perché si pensa di non essere amati a sufficienza, come ci meritiamo o vorremmo. Soprattutto perché cediamo al cattivo pensiero che il bene che hanno gli altri, tolga qualcosa a noi. Come sempre, la causa è il nostro io presuntuoso e superbo che vorrebbe tutto per sé e non tollera di non essere considerato il più bravo, il più grande, il più meritevole di tutti.

Ma colui che è oggetto di invidia che fa? Di solito, o gode di questo e trova compiacimento nel veder soffrire gli altri e si diverte mettendoli sotto i piedi, oppure, al contrario, si riempie di rabbia e di risentimento, meditando vendetta, perché attribuisce all’invidia altrui il suo insuccesso, il non aver potuto raggiungere gli obiettivi che si era prefissato. E quando si fa così in questo modo, ancora si pecca, in quanto è sempre l’io, il nostro io a voler prevalere. La storia di Giuseppe invece ci racconta un’altra storia, con un altro finale. Giuseppe, quasi ucciso e venduto dai fratelli, sarà proprio lui che salverà i fratelli nel tempo della carestia e li riabbraccerà pieno di amore.

Come non vedere allora in Giuseppe, la figura di Nostro Signore di cui ci parla il Vangelo, pietra angolare nonostante sia stata scartata dai costruttori? E’ Lui, Gesù, ad essere stato venduto da noi e ucciso sulla croce. I contadini di cui parla la parabola evangelica sono mossi dall’invidia come i fratelli di Giuseppe, è evidente. Invidia nei confronti del padrone della vigna. Sono invidiosi della ricchezza del padrone per cui non vogliono dargli il suo. Bastonano i servi, uccidono il figlio, pensando addirittura – scioccamente – come sempre è sciocco l’invidioso – di prendere l’eredità del figlio. In quei contadini siamo rappresentati tutti noi, l’umanità intera, dalle origini fino ai nostri giorni; l’uomo infatti, sembra assurdo, ma eppure è invidioso di Dio, della sua potenza, delle sue prerogative e vuole strappargli dalle mani questo potere; vuole diventare Dio, prendere il suo posto, senza rendersi conto che Dio in realtà tutto dono all’uomo, anche la sua natura divina e che quindi non c’è bisogno di strappargli niente, perché tutto si riceve, quando si è vuoti di se stessi e si è pronti a ricevere Dio come un dono. L’uomo invece spesso si fa attrarre dal maligno che è tale proprio perché roso dall’invidia nei confronti di Dio e dell’uomo amato da Dio.

Ma quando l’ uomo si lascia prendere da questa invidia sulla scia del maligno e vuole rubare il posto a Dio, bramando il suo potere e la sua gloria, inevitabilmente e immediatamente si trasforma in un carnefice dell’altro uomo. Credendosi Dio, vuole essere riconosciuto come tale da tutti gli altri esseri viventi ed è perciò spinto a dominarli, a schiacciarli, ad asservirli a sé, e quando questi in qualche modo si ribellano o si sottraggono o anche solo tentano di sottrarsi, ecco che debbono essere distrutti, annientati.

Così, carissimi fratelli e sorelle si spiegano i grandi genocidi della storia, le ideologie che hanno fatto milioni di morti, ma anche ogni manipolazione arbitraria della natura umana, i femminicidi che riempiono le cronache e ogni violenza nei confronti di chi è diverso. La mala pianta però alberga dentro di noi, dobbiamo riconoscerlo: i fatti ricordati non si sarebbero potuti verificare e non si potrebbero verificare se la mala pianta dell’invidia non fosse nel cuore anche di ciascuno di noi.

L’opera nefasta del maligno però e anche tutta la nostra invidia non riusciranno mai a sconfiggere Cristo e a distruggere l’opera di Dio. Anche se come Giuseppe, Gesù è stato considerato e ancora molti lo considerano un fratello “ingombrante”, del male che si è scaricato e che si scarica su di Lui, ne fa motivo di vittoria e quindi di speranza per l’umanità. Egli è il Risorto, nostro Salvatore ed è una meraviglia ai nostri occhi. Accorriamo dunque a Lui con fiducia in questo tempo quaresimale; chiediamogli che ci cambi il cuore e che al posto della invidia distruttrice, mettano radici la benevolenza, la gratitudine e la carità sincera. Chiediamo che Dio ci faccia sentire così forte il suo amore, così intensamente, così pienamente da liberarci dalla schiavitù dell’invidia.

+ Fausto Tardelli




Ciò che a Dio non piace

II° venerdì di quaresima 15 marzo 2019
Prima Stazione Quaresimale (Battistero di San Giovanni in Corte – San Giovanni Fuorcivitas)

“Ciò che a Dio non piace”

 

“Forse che io ho piacere della morte del malvagio o non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva?” Queste parole del Signore riportate nel brano del profeta Ezechiele, ci fanno capire una cosa: che Dio ha un suo modo di guardare al comportamento dell’uomo. Lo fa sempre in una prospettiva di salvezza, mai di punizione o tantomeno di vendetta.

Nel suo modo di agire non c’è quel risentimento nei confronti di chi gli ha fatto un torto, così tipico tra noi uomini. Dio non è spinto dalla voglia di far pagare al reo il fio del suo comportamento. Dio non soffre di “lesa maestà”, per cui chi si è permesso di offenderlo deve essere punito, annientato.

Niente di tutto questo: Dio ha piacere, desidera invece soltanto e senza retro-pensieri, che il malvagio desista dalla sua condotta e viva, rivelandosi in questo modo un Dio che ama la vita, che è fonte della vita e che ama donarla. Vengono subito qui in mente le parabole evangeliche della misericordia, laddove si dice che c’è più gioia in cielo per un peccatore che si converte che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione; soprattutto viene in mente la parabola del buon pastore che va in cerca della pecora perduta e se la carica sulle spalle con infinito amore per riportarla ai pascoli e alle acque della vita.

Di fronte a un Dio così, carissimi amici, non ci deve allora far fatica fare verità su noi stessi; non ci può creare disagio guardare in faccia con sincerità le nostre malvagità. Non c’è da nascondere niente.

La prima cosa che forse dobbiamo imparare nel tempo della Quaresima è anzi proprio questo: riconoscere con sincerità la malvagità che è in noi. È l’unico modo per sperimentare la cura premurosa del Signore e il suo amore infinito. Egli infatti, dice ancora in altra parte del vangelo, è venuto per i malati, per i peccatori, per coloro che si sono perduti, non certo per chi si sente a posto, già bravo, “in regola” e quindi autosufficiente e bisognoso di nulla. In realtà questi è già morto, la vita lo ha abbandonato.

Per non correre il rischio di rimanere esclusi dalla vita, dobbiamo chiedere che il Signore con la sua luce illumini anche gli angoli più reconditi della nostra coscienza, per mettere a nudo tutte le nostre miserie, così da poter vedere bene quei compromessi che pian piano finiscono per impastare la nostra vita e renderla mediocre: né calda né fredda, quindi, a detta del libro dell’apocalisse, vomitevole. Che il Signore ci illumini per poter riconoscere la nostra malvagità in tutta la sua gravità e anche in tutte le sue conseguenze negative per la vita del mondo. Si, perché si fa presto a gridare contro i mali del mondo, magari contro il surriscaldamento del pianeta e i cambiamenti climatici come si è fatto in questa giornata, ma quanto si è avvertiti che la causa di ogni male è il peccato che ognuno di noi commette ogni giorno? Che la causa è la sistematica trasgressione di quelle dieci parole che si raccolgono nel duplice comandamento dell’amore?

Come i raggi del sole in una stanza fanno vedere in contro luce la polvere che c’è nell’aria, così la luce del Signore rende evidenti i nostri mali: e di questo non dobbiamo che ringraziare il Signore. E’ una vera grazia, che all’inizio di questa quaresima vogliamo chiedere.

Avendo però ben chiaro una cosa, come ci ricorda ancora il profeta Ezechiele; che non basta accorgersi e vedere la nostra malvagità: occorre anche “allontanarsi da tutti i peccati, osservare tutte le leggi di Dio e agire con giustizia e rettitudine”. Il Signore è molto chiaro in proposito. Il suo perdono non ci trova già sani. Il suo amore ci raggiunge mentre siamo ancora peccatori. Questo è vero. Ma può produrre frutto soltanto se trova in noi disponibilità a un sincero cambiamento di vita.

L’insegnamento di Cristo propostoci nel vangelo di stasera in questo senso è una grande grazia per noi; esso infatti ci permette di riconoscere la nostra malvagità, di aprirci al perdono di Dio, mostrandoci inoltre la strada da intraprendere per una via nuova. In modo particolare lo fa andando a scoprire le magagne che guastano il rapporto con gli altri, relazione essenziale nel progetto di Dio per l’uomo.

La malvagità che Cristo stasera rivela presente nel nostro cuore è quella che ci fa agire in modo diametralmente opposto a quello di Dio che, abbiamo visto, non tiene conto del male ricevuto, non ci punisce, non ce la fa pagare, non ci disprezza. Noi, al contrario abbiamo spesso un cuore pronto all’ira nei confronti degli altri, impaziente, prepotente. Incredibilmente omicida, come proprio oggi abbiamo visto in Nuova Zelanda. Magari siamo capaci di dire con ipocrisia che in fondo noi non siamo di quelli che uccidono, sapendo bene però che in realtà gli altri si possono uccidere in tanti modi, anche solo con le parole o con l’indifferenza.

L’esame si fa stringente, perché il Signore Gesù mette a nudo anche la malvagità che sta dentro la semplice offesa. Apparentemente innocua, l’offesa dell’altro può essere davvero carica di cattiveria, di disprezzo, persino di odio. E in questi tempi di social diffusi, non dovremmo forse fare davvero molta attenzione alle parole che pronunciamo? Alla cattiveria che c’è dentro le nostre parole, pronunciate o scritte? Al veleno che si cela dietro apparenze perbeniste e magari anche educate?

Nell’insegnamento evangelico, Gesù ci indica anche la strada da intraprendere perché il suo amore non sia vano in noi e tutto non si riduca ad un perdono a buon mercato. Sono indicazioni concrete che mostrano atteggiamenti e comportamenti nuovi. Indicazioni di cui far tesoro. Eccole: impegnarsi per la riconciliazione col fratello, impegno per Gesù prioritario. Anche rispetto all’offerta a Dio, alla relazione con Dio. Impegnarsi per la riconciliazione significa prende atto realisticamente che qualcosa si è rotto, che le relazioni a volte si frantumano, su spezzano, per cui occorre appunto riconciliarsi, ricucire. Una riconciliazione – si badi bene – da ricercare non solo perché noi siamo in disaccordo con qualcuno ma perché – come dice Gesù – qualcuno ha qualcosa contro di noi. Insieme alla riconciliazione, Gesù ci invita a ricercare il dialogo, almeno fin dove è possibile; a cercare una via di accordo con l’altro, parlando, incontrandosi, confrontandosi. Non sempre ciò è possibile. Ma anche dove ciò risultasse impraticabile, il cuore deve comunque sempre rimanere lontano dal disprezzo dell’altro, deve restare aperto all’incontro, sempre proteso al dialogo, ostinatamente desideroso che persino colui che ci ha fatto del male, si converta e viva.

E’ così allora che potremo essere davvero figli di Dio, di quel Dio che non ha piacere della morte del malvagio, ma che si converta e viva.

 




La Chiesa sempre rinnovata dallo Spirito Santo

Serra Club San Miniato
18 gennaio 2019

 

Inizio con una nota un po’ negativa: ho come l’impressione che stiamo trasformando la chiesa in una organizzazione solo umana con finalità puramente terrene. Stiamo forse facendo della chiesa una ONG umanitaria? Vi ricordate l’omelia di Papa Francesco, la prima, dopo essere stato eletto, nella cappella Sistina? – illuminante per le indicazioni circa il suo pontificato: camminare, edificare, confessare Gesù Cristo. Erano le tre azioni a cui invitava la chiesa e tutti noi. E a proposito del confessare diceva: “Noi possiamo camminare quanto vogliamo, possiamo edificare tante cose, ma se non confessiamo Gesù Cristo, la cosa non va”. Diventeremo una ong filantropica, “ma non la Chiesa, sposa del Signore”. E aggiungeva: “Quando non si cammina, ci si ferma. Quando non si edifica sulle pietre cosa succede? Succede quello che succede ai bambini sulla spiaggia quando fanno i castelli di sabbia, tutto viene giù, è senza consistenza”. Ma – proseguiva Papa Francesco –  “chi non prega il Signore, prega il diavolo”, perché “quando non si confessa Gesù Cristo, si confessa la mondanità del diavolo, la mondanità del demonio”.

Sempre, nella storia della chiesa, si è corso il rischio e molte volte vi si è caduti dentro, di fare della chiesa una realtà solamente umana, un potere mondano, un regno, una casta, un codice di leggi…. Oggi corriamo il rischio di fare della chiesa una organizzazione filantropica.  Ma la chiesa – diceva e dice bene il Papa – non è un’organizzazione umanitaria. E’ la sposa dello Spirito Santo; è la comunità di coloro che si lasciano guidare dallo Spirito e vivono la comunione con il Padre, mediante il Figlio, appunto nello Spirito Santo; essa è madre che genera figli alla vita eterna per opera dello Spirito, come Maria Santissima; madre che fa rinascere alla vita di grazia gli uomini peccatori; essa è la comunità dei redenti che annuncia al mondo i cieli nuovi e le terre nuove, che invita alla conversione l’uomo e lo aiuta ad incontrarsi con il Cristo Salvatore.

La Chiesa e lo Spirito Santo sono dunque inscindibilmente legati. Potremmo dire così, articolando la mia riflessione: la Chiesa è continuamente rinnovata dallo Spirito santo perché nasce da Lui e perché vive e agisce grazie a Lui.

1.

Che la chiesa nasca dallo Spirito Santo è abbastanza evidente. Non è nemmeno la semplice chiamata di Cristo al discepolato, quella cioè che Gesù rivolge agli apostoli e ai vari discepoli, che fonda la chiesa. Del resto, la stessa narrazione evangelica della chiamata dei dodici avviene nella luce pasquale della morte e della resurrezione di Cristo, nonché – importantissimo – della Pentecoste. In effetti, la Chiesa nasce a Pentecoste e nasce con uomini fragili e peccatori, gli apostoli. Lo Spirito Santo fa nascere la chiesa non da uomini forti e coraggiosi, da uomini “bravi”, che possono esibire dal mondo lo splendore della loro coerenza, la forza della loro bontà. Tutt’altro. Lo Spirito costituisce come chiesa uomini che, eccetto Maria santissima, non avevano alcuna credenziale davanti al mondo. Chiunque avrebbe potuto dire loro, qualora avessero cominciato a predicare, come poi hanno fatto, ma voi, dove eravate quando il vostro maestro veniva condannato e crocifisso? Proprio voi che siete fuggiti, che non avete avuto il coraggio di seguire il vostro maestro fino in fondo, ora venite a farci la predica? Cosa mai avrebbero potuto rispondere a una tale accusa gli apostoli? Assolutamente niente. Avrebbero solo potuto dire: avete perfettamente ragione. Ma loro erano lì non per i loro meriti e le loro capacità, bensì in forza dello Spirito Santo che aveva avuto misericordia di loro e li aveva fortificati, riunificati in Cristo e resi capaci di parlare al mondo. Come infatti accadde a Pietro che parlando, toccò il cuore dei suoi ascoltatori, dice il testo degli Atti. Forse per le sue capacità, lui che aveva rinnegato tre volte il Signore imprecando e giurando che non lo conosceva? Niente affatto! Ciò che dette forza alla parola di Pietro non fu la sua coerenza, la sua bravura, l’essere senza peccato, ma la potenza dello Spirito Santo.

La chiesa dunque nasce dallo Spirito Santo e questa nascita è continua; sempre la fa nascere. E’ opera sua e non potrebbe essere altrimenti, perchè come dicevo, dei poveri uomini peccatori non avrebbero mai avuto la forza e la capacità di testimoniare Cristo. Non solo. Lo Spirito è all’origine della chiesa anche perchè è per la potenza dello Spirito, che genti diverse, molto diverse tra loro, poterono e possono riunirsi insieme e formare un solo popolo, una sola famiglia. Il miracolo della glossolalia nel momento della Pentecoste sta lì a significare questa unità molteplice e diversificata, dove ognuno riesce ad ascoltare nella propria lingua l’identico annuncio di salvezza. E’ un evento di comunione, la Pentecoste. E’ Babele rovesciata. Là la volontà caparbia dell’uomo voleva unificare tutto in un unico progetto – un progetto tutto umano –  che raggiungesse il cielo; a Pentecoste invece, dal cielo lo Spirito si effonde sugli uomini e, pur nella originalità di ciascuno, si viene a formare una sola famiglia. La chiesa nasce plurale: giudei e Gentili, Parti, elamiti, greci e romani, abitanti della Mesopotamia e del Ponto, genti diverse con storie e vicende, anche personali diverse; centurioni e soldati romani insieme a zeloti, farisei membri del sinedrio con pubblicani; prostitute, ladri, assassini con ebrei osservanti della legge. La chiesa nasce come un miracolo di comunione. Non è un prodotto umano, non è farina del nostro sacco. E’ un vero e proprio miracolo. Ed è un miracolo che continua nel tempo fino ad oggi, nonostante tutto. Solo lo Spirito di Dio può realizzare questa comunione che non è il risultato dello sforzo, della intelligenza o delle diplomazie umane, anche se ognuno è chiamato a fare la sua parte, che consiste esclusivamente nell’aprirsi con docilità all’azione dello Spirito, e lasciarsi trasformare da Lui per diventare uomini “pneumatikoi”, “spirituali”.

Come è stato possibile allora – mi si dirà – che lungo i secoli la chiesa si sia divisa, i discepoli di Cristo si siano separati? E’ chiaro: ciò è stato possibile quando ci si è opposti allo Spirito di Dio, quando non ci si è lasciati guidare da Lui e si sono assolutizzate le proprie idee, i propri progetti, facendo della chiesa una cosa “nostra”, mondana, solamente umana. Ecco perchè – a mio parere – anche oggi rischiamo pericolosamente la divisione e la frantumazione della chiesa. Perchè a dispetto di quello che diciamo e affermiamo, in realtà mi pare che non stiamo mettendoci in umile e orante ascolto dello Spirito Santo, rendendoci docili soltanto a Lui; ci stiamo piuttosto incaponendo sulle nostre idee, sulle nostre linee teologiche e pastorali, contrapposte a quelle degli altri, perchè vogliamo che prevalga una certa “linea” invece che un’altra e per farlo siamo pronti a tutto, adottando strategie comunicative e di occupazione di posti perché vinca la “linea”. Ma che linea e linea! E’ lo Spirito Santo che guida la Chiesa ed è a lui che con molta umiltà dobbiamo esser docili, tutti, dal Papa all’ultimo fedele – perchè è solo lo Spirito che ci fa conoscere autenticamente il Cristo, di cui noi siamo il suo corpo! Un discorso – si badi bene – che vale ugualmente per i cristiani di sinistra come per quelli di destra, per i novatori progressisti e i tradizionalisti, per i fan di Papa Francesco e i suoi oppositori. Tutti lì a inseguire i propri progetti, la propria idea di chiesa, i propri convincimenti. Attaccati ad essi e disposti a fare la guerra per essi. Quando invece, memori che la chiesa è un evento dello Spirito, che nasce da Lui e che senza di Lui non c’è chiesa, dovremmo preoccuparci solamente di essere docili allo Spirito Santo che, sia detto per inciso, non sempre e comunque ci spinge a fare quello che più ci piace, quello che ci quadra di più, quello che corrisponde alle nostre convinzioni. Come ben ci insegnano le lettere alle chiese nel libro dell’Apocalisse, laddove esse sono invitate ad “ascoltare con attenzione ciò che lo Spirito Santo dice.”

Ed eccoci allora al secondo punto. Lo Spirito Santo fa vivere la Chiesa e ne sostiene l’azione. Anzi, l’azione della chiesa è opera dello Spirito e si realizza per la sua potenza. La Chiesa vive e agisce nello Spirito Santo e se non vivesse così e agisse invece sulla base di qualche altra potenza o ragionamento umano, perderebbe la sua identità e si annienterebbe. Cosa che purtroppo può sempre accadere in un luogo o in un altro. Se infatti il Signore ha promesso la permanenza della chiesa nel tempo proprio con numerica l’assistenza continua dello Spirito Santo, non ha però detto niente circa la sua consistenza né ha garantito la sua permanenza in ogni luogo della terra. La storia è lì a dimostrarci che chiese un tempo fiorenti, oggi non esistono più oppure sono ridotte quasi al nulla.

La Chiesa dunque vive e agisce per opera dello Spirito Santo. Lo vediamo bene nel libro degli atti degli apostoli. Filippo è condotto dallo Spirito incontro all’eunuco della regina Candace (Atti 8, 26-29). Lo Spirito conduce Pietro presso il centurione Cornelio e ne conferma l’operato (Atti 11, 12; lo Spirito indica Paolo e Barnaba per la missione e li invia (Atti 13, 2-4)… e potremmo continuare. Lo Spirito agisce nell’annuncio della Parola, come abbiamo visto nel caso della predicazione di Pietro. Così, nella vita della Chiesa, lo Spirito agisce nell’evangelizzazione come nella catechesi. Non sono i persuasivi discorsi della sapienza umana, come dice bene San Paolo in I Cor al cap. 2, che operano. E’ lo Spirito dentro le parole umane. L’uomo mette la parola, mette la coscienza della propria incoerenza e fragilità, mette soprattutto la consapevolezza che non dice ciò che a lui pare, ma ciò che lo Spirito vuole; poi è lo Spirito che da sostanza alle parole, le rende vive e penetranti e con esse tocca il cuore dell’uomo, perchè solo lui può penetrare nel cuore dell’uomo, che Egli in qualche modo già abita. Ed è sempre lo Spirito – come dice San Paolo – che opera nel Battesimo e nella memoria eucaristica della morte e risurrezione del Signore Gesù. Così accade in tutti quei gesti che sono i santi sette segni. In essi e attraverso di essi lo Spirito opera. In sostanza, l’annuncio del Vangelo e i santi sette segni, sono l’agire dello Spirito nelle azioni della Chiesa; l’annuncio del Vangelo  e l’amministrazione dei sacramenti sono a loro volta, “l’agire” proprio della chiesa nel mondo. E’ questa l’azione per eccellenza della Chiesa nel mondo, che si fa lode ed eucaristia per il mondo. Forse a volte siamo portati a pensare che la chiesa nel mondo debba fare questa o quella cosa, quella e quell’altra cosa, secondo un po’ le mode del momento. Ma non è così: l’azione fondamentale della chiesa nei confronti del mondo, il suo agire nella storia è l’annuncio del vangelo e l’amministrazione dei santi segni di salvezza che sono l’agire di Cristo, reso possibile proprio dall’opera dello Spirito Santo.  Questo è il modo con cui la Chiesa ama il mondo, l’umanità. Dice il Concilio Vaticano II nella Sacrosantum Concilium al n.7 che “ ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza, e nessun’altra azione della Chiesa ne uguaglia l’efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado.” Tutte le altre azioni della Chiesa, quella che chiamiamo per esempio azione pastorale o azione di pre-evangelizzazione, come ogni azione volta al bene di questo mondo, come pure le stesse opere di carità, tutto, assolutamente tutto deriva, è animato, sorretto, guidato e sostanziato dalla parola di Dio e dai gesti santi con i quali lo Spirito opera la santificazione degli uomini. Forse oggi si sta forse un po’ dimenticando che questa è la fondamentale opera della chiesa nel tempo, nella storia: donare la grazia di Cristo, permettere ai peccatori di trovare la salvezza e la via di una vita nuova nell’amore, aiutare la comunione dell’uomo con Dio e quindi con gli altri, riconosciuti come fratelli. Perché per questo è mandato lo Spirito sulla chiesa e nel mondo: per la santificazione dell’uomo, la sua “divinizzazione”, la sua partecipazione alla comunione piena con Dio nella Trinità; solo in essa infatti ,l’uomo è veramente se stesso. L’esercizio della carità per la chiesa, non consiste in altra cosa che assecondare l’opera dello Spirito che vuole restituire ad ogni uomo, la dignità di immagine di Dio, destinato alla vita eterna, operando con la potenza dello Spirito Santo per aiutarlo a liberarsi da ogni giogo e condizionamento anche terreno, si che possa aderire pienamente a Cristo Signore, sperimentando una vita nuova nella comunione con Dio e con gli altri. Una carità che si volesse definire tale, ma che non partisse e non fosse sostenuta dall’azione dello Spirito santo, non sarebbe carità, ma solo un’opera umana, viziata in origine dal cuore malato che la mette in opera. Anche i farisei facevano l’elemosina e facevano cose buone, ma tutto era inquinato dal loro cuore indurito e chiuso alla grazia a causa della superbia. Ciò che facevano aveva l’apparenza del bene ma poneva solo pesi sugli altri. E se la chiesa non si preoccupasse di offrire Cristo a chi aiuta materialmente, cioè la salvezza e una vita nello e secondo lo spirito, tradirebbe la sua missione.

3.

Arriviamo allora al terzo punto: la chiesa sempre rinnovata dallo Spirito. Eh si, perchè se lo Spirito fa nascere la chiesa, la fa vivere e agisce in lei e attraverso di lei, Egli anche sempre la rinnova, si mantenga fedele, sia sposa senza macchia, e sia all’altezza del compito che le è affidato lungo i secoli. Qui non possono non venirci in mente le parole di Cristo nel vangelo di Giovanni (Gv 16,13)……. Rivolto ai discepoli, parlando dello Spirito, Gesù afferma che Egli ”vi guiderà alla verità tutta intera”. Ciò fa intende una presenza attiva dello Spirito nella compagine della Chiesa per condurla nel tempo alla pienezza della verità. Non c’è dubbio dunque alcuno che – per le parole del Vangelo – lo Spirito abbia a cuore il rinnovamento continuo della chiesa. Un rinnovamento che va in due direzioni inscindibili. Da una parte, lo Spirito rinnova la chiesa riconducendola sempre al primitivo amore, rifondandola cioè sempre su Gesù Cristo, riportandola al momento sorgivo della sua esistenza a quella effusione dello Spirito che è avvenuta a Pentecoste, ponendole davanti Maria Santissima, colei che, immagine e sintesi della Chiesa, ha accolto pienamente lo Spirito, ha generato l’uomo nuovo ed è anche diventata madre della chiesa; dall’altra, lo Spirito rinnova la chiesa adattandola ai tempi, non nel senso di un accomodamento allo spirito del tempo, all’aria del mondo, bensì attrezzandola per essere capace di assolvere la propria missione, il compito che le è stato affidato dal redentore, nelle mutevole condizioni storiche, nelle latitudini più diverse, nelle circostanze più disparate. Lo Spirito interviene a suscitare nella chiesa risposte e attenzioni agli uomini di quel momento storico.

Questa opera di rinnovamento della chiesa in duplice direzione ma convergente nel fare della chiesa un popolo “radunato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, che sia “luce del mondo” e “sale della terra”, lo Spirito Santo la compie attraverso quattro elementi: i carismi, i segni dei tempi, i poveri e il magistero. Cerco di spiegarmi.

a.

Lo Spirito Santo suscita sempre nella chiesa doni particolari, doni che si chiamano carismi. Doni particolari appunto, dati sempre per l’utilità comune, mai per la soddisfazione di qualcuno. Lo Spirito di Dio illumina il cuore di alcune persone, ne rischiara l’intelligenza, ne acuisce la sensibilità verso aspetti della vita cristiana e della testimonianza. Ad ogni battezzato, lo Spirito dona qualche carisma. Ma ce ne sono di speciali, di straordinari, di particolare impatto o rilievo. Attraverso di essi, sempre lo Spirito invita la chiesa a tornare al Signore, a tornare al fondamento, a ciò che è essenziale e che corrisponde alla sua chiamata. Nello stesso tempo, indica alla chiesa il cammino da percorrere nell’oggi per adempiere la propria missione nel tempo e nello spazio. Questi carismi, lo Spirito li diffonde a piene mani, in ogni angolo della chiesa e in ogni persona. A volte carismi particolarmente importanti sono affidati ad umili bambini, pastorelli, a persone insignificanti, come invece possono essere date a persone che suscitano un fascino speciale, tale che possono chiamarsi persone carismatiche. A volte i carismi scuotono la vita della chiesa, contestano certi compromessi che il tempo ha prodotto, colmano lacune e deficienze. A volte si rivolgono anche criticamente nei confronti di chi ha la responsabilità della guida della chiesa ed è chiamato ad un compito magisteriale. Anche i carismi però, come ci insegna San Paolo, sono soggetti all’utilità comune e su di loro si deve esercitare un discernimento, perchè il carisma più grande di tutti è la carità di Cristo. Per vivere bene i carismi, in modo cioè che siano davvero per l’utilità comune, occorre che ci sia sempre umile e orante docilità personale allo Spirito Santo, altrimenti finiranno per dividere.

b.

Accanto ai carismi, lo Spirito santo che è dentro la storia e la guida dal suo interno, si fa presente attraverso quelli che si è soliti chiamare “i segni dei tempi”. Quelli a cui il vangelo stesso rimanda in Mt 16,4 e Lc 12,54-56 e che il Papa San Giovanni XXIII ripropose all’attenzione della chiesa: “Facendo nostra la raccomandazione di Gesù – dice il Papa – di saper distinguere i segni dei tempi, crediamo di scoprire, in mezzo a tante tenebre, numerosi segnali che ci infondono speranza sui destini della chiesa e dell’umanità”. E il Concilio nella GS al n.11 riprende: “Il popolo di Dio, mosso dalla fede con cui crede di essere condotto dallo Spirito del Signore che riempie l’universo, cerca di discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni, cui prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza o del disegno di Dio. La fede infatti tutto rischiara di una luce nuova, e svela le intenzioni di Dio sulla vocazione integrale dell’uomo, orientando così lo spirito verso soluzioni pienamente umane”.

Tali segni che lo Spirito Santo indica – che vanno letti, studiati, capiti anche con l’apporto della ragione – si riconoscono perché segnalano la vocazione all’unità di tutto il genere umano; portano alla luce ciò che va nella direzione della comunione, del legame tra gli uomini, secondo il progetto di Dio. Si tratta di eventi, movimenti della storia che contengono un messaggio di Dio e sono voce dello Spirito; alcune volte anche in eventi contrari alla volontà di Dio, si manifesta per contrasto, il bisogno drammatico della comunione tra gli uomini e con Dio, rivelando quindi l’azione del maligno che non cessa di lavorare per confondere gli uomini, portarli alla perdizione e distruggere la creazione. In ogni cosa che accade, possiamo in realtà leggere un messaggio di Dio. Particolarmente in certi avvenimenti epocali o in certe macro situazioni che si rendono evidenti nella storia, lo Spirito parla alla chiesa, la scuote, la rimprovera, la mette in crisi e la spinge alla conversione, oppure la conforta e la consola, le infonde coraggio per affrontare il presente o indica le strade da percorre per incontrare l’uomo come fece con Filippo per incontrare il funzionario etiope. Ma i “segni dei tempi” vanno interpretati perchè ci si potrebbe ingannare. Ancora una volta, è necessaria la docilità allo Spirito per poter discernere i segni dei tempi e occorre farsi aiutare anche dai carismi, come pure dal magistero della Chiesa.

I poveri. Si. I poveri del mondo sono essi stessi voce dello Spirito Santo; sono il grido dello Spirito, quello che chiamò per es. San Paolo in Macedonia. “Durante la notte apparve a Paolo una visione: era un Macedone che lo supplicava: «Vieni in Macedonia e aiutaci!». (Atti 16,9). I poveri naturalmente in ogni senso: poveri materiali; poveri di dignità e di rispetto; poveri di cultura e di conoscenze; poveri e ultimi perchè rifiutati ancora prima di nascere; poveri e ultimi perchè disprezzati e abbandonati alla solitudine; poveri e ultimi perchè non amati da nessuno o perchè incapaci di amare; poveri perchè allontanatisi da Dio e impantanati nei peccati; poveri perchè affamati e assetati di vangelo. I poveri del mondo esprimono una fame che non è solo di pane ma della Parola che esce dalla bocca di Dio, perchè non di solo pane vive l’uomo. Tutti questi volti di poveri del mondo guardano alla chiesa, al popolo di Dio e domandano risposta, supplicano e le ripetono “Aiutaci!”, perchè non accada che “i bambini chiedano pane e non ci sia chi lo spezzi loro”, come dice il libro delle Lamentazioni (4,4). Quei poveri che sono come pecore senza pastore e di cui, nel vangelo Cristo ha compassione, per cui si mette a insegnare loro (Mc 6,34).  I poveri sono una voce possente dello Spirito che spinge al rinnovamento della chiesa, e siccome, come ci ha detto il Signore, i poveri li avremo sempre con noi, ciò vuol dire che lo Spirito Santo non cesserà fino alla fine dei tempi di rinnovare la chiesa attraverso di essi.

c.

Infine c’è da dire che lo Spirito santo rinnova la chiesa anche attraverso il Magistero, attraverso cioè quell’insegnamento che lungo i secoli, papi e vescovi insieme hanno dato al popolo di Dio in ordine alle cose della fede e della vita umana sorretta dalla fede. L’assistenza dello Spirito Santo è stata garantita al magistero della chiesa. Ciò non significa che ogni secondario o individuale insegnamento sia pienamente garantito dallo Spirito. Tale assistenza speciale è garantita in certi momenti e a certe condizioni. Il più solenne e autorevole di essi è sicuramente il Concilio ecumenico. Pensiamo all’ultimo concilio il Vaticano II. Esso è stato sicuramente una ventata potente dello Spirito Santo che ha soffiato nella vita della chiesa; creando anche scompiglio se volete, ma rinnovando e adattando la chiesa al suo compito di evangelizzazione nei tempi nuovi del mondo. Quell’atto del supremo magistero rappresenta un profondo rinnovamento operato dallo Spirito Santo. Sempre di nuovo però, per ben interpretarlo e attuarlo, occorre la personale docilità allo Spirito; richiede cuori “integri e buoni” – come dice Luca nella spiegazione della parabola del seminatore per indicare come il seme possa portar frutto – cuori aperti e docili come il cuore di Maria Santissima. Il magistero, a servizio dell’intero popolo di Dio è necessario per l’interpretazione dei segni dei tempi e il discernimento dei carismi. Allo stesso tempo, il magistero della chiesa non può negarsi allo sforzo della lettura comunitaria dei segni dei tempi e all’apporto dei carismi suscitati dallo Spirito.

4.

Termino con una considerazione finale abbastanza logica che discende da tutto quanto siamo andati dicendo. Una specie di conclusione sintetica. Se consideriamo il modo di agire dello Spirito, il suo modo di rinnovare la chiesa attraverso i carismi, i segni dei tempi, i poveri e il magistero, immediatamente, rileviamo una cosa: che lo Spirito agisce mettendo in relazione, creando relazioni reciproche e operando per una comunione che è un camminare insieme. I modi attraverso i quali lo Spirito agisce sono infatti in salutare tensione tra di loro e non si possono dare l’uno senza l’altro. Quando non sono accolti secondo lo Spirito o se ne assolutizza a scapito degli altri, vengono fuori i drammi; arrivano persino a confliggere e a fornire motivi per rompere la comunione. Essi invece chiedono di essere tutti accolti e articolati insieme, in un continuo lavoro di interazione attraverso il quale la inevitabile e costitutiva tensione tra di essi si sciolga nella comunione: “erano un cuor solo e un’anima sola”, così dice della chiesa il libro degli Atti. Lo Spirito Santo rinnova dunque la chiesa, spingendola ad essere sempre quella delle origini, cioè una comunione di fratelli che partecipa per grazia alla comunione trinitaria e che diventa tramite, segno e strumento tra gli uomini di comunione divina e fraterna. Il rinnovamento della chiesa – non quello che noi pensiamo o che noi progettiamo – la riforma della chiesa – non quella che abbiamo in testa, che vogliamo realizzare a tutti i costi e che è soltanto una nostra idea – la realizza invece lo Spirito Santo con la nostra docile collaborazione. E consiste sempre nel muoverci a fare di singoli individui un “noi” in Cristo, una comunione variegata e molteplice, un organismo vivente come un corpo composto da varie membra e organi, che sono però strettamente collegati tra loro in modo vitale e che formano l’unico corpo di Cristo, di cui Cristo è appunto il Capo. Quello che  a noi è chiesto, quello che alla chiesa nel suo insieme è chiesto, è di non ostacolare lo Spirito Santo, di non frapporre barriere alla sua azione, lasciandoci invece guidare, docili alla sua azione. Accogliere e assecondare quello che lo Spirito dice alla chiesa, questo è il rinnovamento; che si tratti di qualcosa di nuovo ed inedito o qualcosa da sempre presente nella chiesa ma un po’ dimenticato, non conta. Il discrimine è dato non dal nuovo di per sé né dal vecchio di per sé, bensì da ciò che è secondo lo Spirito e non secondo la carne. La figura di una chiesa sempre giovane e continuamente rinnovata dallo Spirito Santo non può che essere allora lei, la Vergine Maria. “Lo spirito santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra”. Così l’Angelo a Maria e lei in piena docilità che si rende disponibile al soffio dello Spirito: “avvenga per me secondo la tua parola”. Ecco dunque il segreto del rinnovamento della Chiesa, operato dallo Spirito di Dio in ogni tempo.

+ Fausto Tardelli




Battesimo del Signore – Diaconato di Alessio, Eusebiu, Fratel Benedetto (13 gennaio 2019)

BATTESIMO DEL SIGNORE
Diaconato di Alessio, Eusebio, fra Benedetto
(13 gennaio 2019)

Immergersi nelle acque; salire su un alto monte; alzare la voce: tre azioni, tre gesti che caratterizzano la festa odierna del Battesimo del Signore, secondo le letture bibliche che abbiamo appena ascoltato. Tre azioni che possono ben configurare anche il ministero sacro e in particolare quello del diaconato.

Gesù scese dentro le acque del fiume Giordano per esservi immerso. E’ il primo e fondamentale gesto da considerare oggi. In questo gesto da una parte si indica la necessità per l’uomo di rinascere a vita nuova, purificato dal peccato; dall’altra, Dio Padre mostra chiaramente che è nel Figlio unigenito che bisogna immergersi, cioè in Colui che si è caricato dei peccati del mondo, facendosi come un peccatore.
Per noi allora, immergersi nelle acque, esprime la necessità di essere ogni giorno immersi nel mistero dell’amore di Dio in Cristo, facendone ogni giorno esperienza, esperienza di salvezza, di tenerezza, di liberazione, di conforto e di stimolo a una vita migliore. Come ha detto San Paolo, questa è “un’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo”. L’immersione quotidiana nella grazia di Dio è indispensabile per ogni ministro del Signore. Senza questo continuo “battesimo” nell’amore di Dio, egli non ce la può fare a condividere efficacemente la vita delle persone a cui è inviato, ad aiutare il Cristo a portare il peso dei fratelli e delle sorelle con la dolcezza e la pazienza del servizio. Il ministro del Signore che si illudesse di poter servire gli altri, senza attingere alla fonte dell’amore di Dio, si ingannerebbe e finirebbe per ridurre il suo ministero a un’opera soltanto umana e quindi votata inesorabilmente all’inquinamento dell’egoismo.

Salire su un alto monte. Ecco l’altro gesto indicato dalla parola di Dio. Così dice il profeta Isaia: “Sali su un alto monte”. In questo salire sul monte, possiamo facilmente vedere la chiamata all’impegno, anche faticoso, per rispondere alla grazia di Dio e adempiere il ministero. Occorre salire; dunque occorre faticare, lottare, per superare noi stessi e le nostre cattive inclinazioni, per aprirci alla comunione; occorre salire, sforzandosi di superare ogni giorno le asperità della vita, le contraddizioni del tempo, il nostro stesso cuore di pietra incline sempre ad alimentare l’uomo vecchio. Invece su, in alto, avanti, con decisione. Certamente cadenzando il passo come quando si va in montagna, perché il fiato non venga meno e il cuore non scoppi; però avanti, senza fermarsi di fronte ad alcun ostacolo e senza cedere alla tentazione del cammino facile in pianura o in discesa, per la via larga e spaziosa, che, come dice il Vangelo, porta sicuramente alla perdizione. Così il ministro del Signore non può non essere sempre in arrampicata. Mai solitaria però; piuttosto come quella di un capo cordata che apre la pista e che deve far attenzione a non cadere, trascinando nella caduta coloro che il Signore ha legato a lui.

Infine, c’è da alzare la voce. E’ ancora questo che abbiamo ascoltato nella prima lettura: “Alza la tua voce con forza, tu che annunci liete notizie”. Con questo gesto, con questa azione, si significa il fatto che l’araldo del Signore che porta la buona notizia dell’amore di Dio per gli uomini, della remissione dei peccati e del mondo nuovo della pace, deve farsi sentire, deve proclamare la notizia perché tutti l’intendano. La sua voce deve innalzarsi sopra le mille voci del mondo, sopra il chiacchiericcio delle parole vuote e l’inganno delle parole false di cui è pieno il mondo e di cui si riempiono facilmente la testa e il cuore degli uomini. La buona notizia del Regno di Dio che è Gesù, deve sovrastare quel brusio delle comunicazioni umane, spesso ingannevoli, spesso corruttrici. Un alzare la voce che è si impegno perché la buona notizia sia da tutti ascoltata e tutti la possano conoscere, ma che significa soprattutto lavoro perché la nostra vita corrisponda al messaggio, perchè la gioia brilli nei nostri cuori e nei nostri volti, perchè l’amore generoso e concreto testimoni la verità, la bontà e la bellezza del vangelo. Il diacono è in senso forte “araldo” del Vangelo. Egli sale sull’ambone in mezzo o davanti all’assemblea per proclamare Cristo morto e risorto, buona notizia per il mondo, e mentre l’annuncia con gioia, egli non può mai dimenticare il monito che gli è stato rivolto nel giorno dell’Ordinazione: “Credi ciò che proclami, insegna ciò che hai appreso nella fede, vivi ciò che insegni.

Ed ora, carissimi fratelli e sorelle ascoltiamo le considerazioni che il rituale propone per il conferimento del diaconato.

I diaconi, fortificati dal dono dello Spirito Santo, sono di aiuto al vescovo e al presbiterio nel ministero della parola, dell’altare e della carità, mettendosi al servizio di tutti i fratelli. Divenuti ministri dell’altare, annunziano il Vangelo, preparano ciò che è necessario per il sacrificio eucaristico, distribuiscono ai fedeli il sacramento del corpo e del sangue del Signore. Inoltre, secondo la missione a loro conferita dal vescovo, hanno il compito di esortare e istruire nella dottrina di Cristo i fedeli e quanti sono alla ricerca della fede, guidare le preghiere, amministrare il Battesimo, assistere e benedire il Matrimonio, portare il Viatico ai moribondi, presiedere il rito delle esequie. Consacrati con l’imposizione delle mani secondo l’uso trasmesso dagli apostoli e uniti più strettamente all’altare, i diaconi esercitano il ministero della carità in nome del vescovo o del parroco. Questi compiti esigono una dedizione totale, perché il popolo di Dio li riconosca veri discepoli del Cristo, che non è venuto per esser servito, ma per servire.

E voi, Alessio, Antonio Benedetto, Eusebio, prossimi diaconi, guardate innanzitutto e sempre al Signore che vi ha dato l’esempio, perché come egli ha fatto così facciate anche voi. Come ministri di Gesù Cristo che in mezzo ai discepoli si mostrò come un servo, siate sempre pronti e disponibili per compiere la volontà di Dio e servite con gioia e generosità il Signore e i fratelli. Ricordatevi che nessuno può servire a due padroni e, mettendo la vostra vita al servizio del Signore, rifiutate gli idoli di ogni impurità e dell’avarizia, che rendono schiavi gli uomini.

Poiché vi accostate liberamente all’ordine del diaconato, seguendo l’esempio dei diaconi scelti dagli Apostoli al ministero della carità, siate degni della stima del popolo di Dio, pieni di Spirito Santo e di sapienza. Voi avete scelto di consacrare il vostro celibato per farne segno e richiamo alla carità pastorale, sorgente di fecondità spirituale nel mondo. Animati dal desiderio di un sincero amore per Cristo e vivendo con totale dedizione in questo stato di vita, vi consacrate al Signore a un titolo nuovo e sublime; e aderendo a lui con cuore indiviso, sarete più liberi di dedicarvi al servizio di Dio e dei fratelli, e più disponibili all’opera della salvezza.

Fondati e radicati nella fede, siate sempre irreprensibili e senza macchia davanti a Dio e agli uomini, come devono essere i ministri di Cristo, dispensatori dei misteri di Dio. Non venga mai meno in voi la speranza del Vangelo, di cui sarete non solo ascoltatori, ma araldi e testimoni. Custodite il mistero della fede in una coscienza pura, manifestate con le opere la parola di Dio che predicate, perché il popolo cristiano, animato dallo Spirito Santo, diventi una oblazione pura, gradita a Dio. E quando andrete incontro al Signore nell’ultimo giorno, possiate udire da lui: “Vieni, servo buono e fedele, prendi parte alla gioia del tuo Signore”.




Chiesa di San Bartolomeo in Pantano – Festa di San Bartolomeo (24 agosto 2018)

SAN BARTOLOMEO
24 agosto 2018

Oggi è un giorno speciale per la nostra città. È la festa di San Bartolomeo. Legata ai ricordi dell’infanzia, è l’occasione per far festa con i bambini, portandoli ad ungere, secondo la tradizione. È la festa con la quale riprende anche la vita della città e il quartiere si colora di allegria, mentre questa antica e bellissima austera chiesa accoglie una moltitudine di persone che vengono a ricevere una benedizione, accostarsi alla confessione, nutrirsi del pane di Cristo o anche solo a sostare un momento nel cammino della vita. Questo edificio di pietra, metafora di quello che è la chiesa di sempre, accoglie tutti quelli che vogliono entrare, senza discriminazioni di sorta, buoni o cattivi, belli o brutti, neri, bianchi, gialli o rossi: chiede solo rispetto per la santità del luogo e per il mistero che vi si celebra.

Potremmo togliere di mezzo questa festa, svilirla, ritenendola un retaggio di un passato ormai morto, rievocata soltanto dal punto di vista folkloristico? Credo proprio di no. Questa festa parla di Pistoia e delle sue radici cristiane ancora vive; parla ancora oggi del bisogno che ogni uomo ha di Dio; come parla a noi del bene prezioso dei bambini che sono in mezzo a noi e che anzi dovrebbero essere molti di più. Questo giorno ci racconta anche della festa, ci parla di tranquillità, di pace, di fraternità, di amicizia e di gioia, tutte cose di cui abbiamo estremo bisogno e di cui sentiamo oggi più che mai il bisogno, quando si alzano mura e steccati addirittura di odio, ci si prende ogni giorno di più a male parole, ci si offende, ci si insulta, si mostrano i muscoli e ci si divide ferocemente come se fossimo già in una guerra civile o di nuovo, dentro cupi anni di piombo.

E allora, carissimi fratelli e amici, cerchiamo di vivere al meglio questa festa, di godercela, cercando davvero di rinverdire la nostra fede cristiana, riscoprire la bellezza dell’amore verso il prossimo, ridare slancio al nostro impegno di costruttori di pace, offrendo così un buon futuro ai nostri figli.

Ma noi, ci crediamo in Gesù Cristo, carissimi fratelli e sorelle? Non vi sembri scontata questa domanda e soprattutto la risposta: che diamine che ci crediamo, altrimenti non saremmo qui, mi potreste dire. Eppure io credo che la domanda non sia affatto fuori luogo. Abbiamo sentito il Vangelo; lì Natanaele, cioè Bartolomeo, dall’iniziale scetticismo passa all’adesione entusiasta: «Signore, tu sei il figlio di Dio, tu sei il re d’Israele». Ma noi, crediamo nel Signore Gesù? Chi è Lui per noi, per me? Possiamo davvero dire a Lui, come disse Bartolomeo: «Tu sei il Figlio di Dio, tu sei il mio re?»

Chi seguiamo, nella nostra vita? a chi diamo fiducia? Chi è il nostro punto di riferimento essenziale? Domande che già ponevo a me stesso, a voi e alla città nel giorno della festa di San Jacopo e che ripongo oggi, sempre nella festa di un apostolo.

Perché la fede nel Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, non la possiamo dare per scontata. No. La fede in Gesù Cristo non è semplicemente un dato culturale; un riferimento di tipo sociologico o un semplice “credere in qualcosa”. Questa fede non posso darla per scontata nella mia vita, anche se son vescovo; non la possono dare per scontata nemmeno i sacerdoti, a volte dimentichi e in alcuni terribili casi addirittura traditori, del principale loro compito che è come quello di Filippo, narrato nel vangelo di oggi: portare le persone a Cristo.

La fede cristiana, lo dicevo già il 25 di luglio e oggi qui lo ripeto, si esprime nel credo che ogni domenica professiamo e che forse conosciamo davvero poco; si concretizza nell’osservanza dei comandamenti del Signore che sono espressione dell’amore vero e che forse ci siamo un po’ scordati; la fede si vive nella chiesa e con la chiesa fondata sugli apostoli; e ciò vuol dire in comunità con gli altri fratelli e sorelle; la si annuncia infine a tutti come il tesoro più prezioso del quale nessuno può essere privato.

Prima di tutto però la fede è rapporto vivo con Cristo; relazione di fiducia e di amore con Lui, ascolto della sua parola e comunione di grazia con Lui; è essere perdonati da lui e quindi un esser liberati da Lui per vivere con Lui, in Lui e per Lui, come preghiamo ogni volta che andiamo a Messa.

Questa fede cristiana è aperta al dialogo con tutti, credenti e non credenti; non ha paura di confrontarsi con nessuno; anzi, tende la mano ad ogni creatura, qualunque sia il suo credo, la sua cultura, la sua lingua o le sue usanze. Aperto al dialogo verso tutti, pieno di amore e di disponibilità nei confronti di chiunque che rimane sempre immagine di Dio e dunque fratello, il cristiano sa però che la sua fede è originale rispetto a quella di qualsiasi altra religione e che ha ragioni da mostrare anche al non credente.

Carissimi fratelli e sorelle, in questo mondo globalizzato che ci vorrebbe soltanto consumatori di un grande e unico super mercato; in questo mondo che, come ha detto Papa Francesco è «soggetto alla globalizzazione del paradigma tecnocratico, che mira consapevolmente a un’uniformità unidimensionale e cerca di eliminare tutte le differenze e le tradizioni, senza rispetto per la peculiarità e ricchezza di ogni persona e di ogni popolo»; che vorrebbe unificarci rendendoci però ingranaggi di un unico sistema amministrato da burocrazie e da una finanza mondiale che favorisce solo la ricchezza di pochi, noi affermiamo la dissonanza della fede cristiana, l’eccedenza di questa fede e della visione d’uomo che essa comporta, il valore della differenza e il valore delle tradizioni e dei singoli popoli. Convinti che questo non impedisca la convivenza pacifica tra le genti ma anzi la renda possibile, perché nel dialogo e nel confronto libero e rispettoso si superano le paure e si mantiene viva la strada per la ricerca della verità, anelito che non si può cancellare dal cuore dell’uomo.

In questa fede umile e forte noi, carissimi amici, vogliamo radicarci sempre di più, anche se è esigente, ci chiede coerenza di vita e non si accontenta di parole o di segni di facciata. In questa fede e con questa fede vera, vorremmo che crescessero i nostri figli, assaporando la bellezza di una vita vissuta col Signore nell’amore generoso e magnanimo verso il prossimo. Con questa fede vogliamo costruire una società buona, accogliente, giusta e fraterna. È difficile, in specie coi tempi che corrono, ma non ci arrendiamo. Lo dobbiamo a Dio e ai nostri figli.

San Bartolomeo, apostolo di Cristo che per Cristo ha dato letteralmente la pelle, interceda per noi e ci aiuti ad essere gioiosi cristiani autentici, e soprattutto aiuti ad esserlo i nostri bambini.

+ Fausto Tardelli