Apertura diocesana del Giubileo 2025

Apertura diocesana del Giubileo

(Pistoia, Cattedrale di San Zeno, 29 dicembre 2024)

Abbiamo compiuto, seppur poco più che simbolico, un pellegrinaggio a questa Cattedrale. Segno tipico del Giubileo che ci ricorda che siamo tutti in cammino nella nostra vita, verso la patria del cielo che è la meta. Un segno che ci ricorda anche che in questo cammino non siamo soli ma insieme agli altri nella comunità cristiana, anche se resta un cammino personalissimo di ciascuno. Muoversi in pellegrinaggio significa inoltrerendersi disponibili ad un processo di conversione che ci conduca a lasciare ogni cosa inutile nella nostra vita, sbagliata o negativa, accettando la scomodità del muoversi dal proprio comodo guscio che ognuno si costruisce pian piano, per andare verso Dio e verso gli altri.

Il Giubileo del 2025 – Giubileo della Speranza –serve a domandarci se siamo uomini e donne di speranza. Se davvero il Signore Gesù, morto e risorto, rappresenta per noi la Speranza che non delude, la speranza su cui si fonda la nostra vita e senza della quale non possiamo né credere veramente né amare veramente, inscindibile trinomio della vita cristiana. Esso serve aritrovare la Speranza perché sia forte contro ogni delusione che ci possa tentare. Oltre a questo, l’anno giubilare che stasera iniziamo, ci spinge ad essere in mezzo ai nostri fratelli e sorelle, seminatori di speranza, in particolare in quei luoghi dove si soffre per la povertà, l’umiliazione, il degrado sociale, l’ingiustizia e il male morale proprio e altrui; pronti a cogliere e valorizzare dovunque essi siano, quei germi di speranza che lo Spirito Santo suscita nel cuore degli uomini.

Non credo che occorra spendere molte parole per dire quanto il nostro mondo e le persone abbiano bisogno di una Speranza che non deluda, soffrendo a causa di speranze corte, illusorie e infrante. La situazione attuale di un mondo senza pace e di una società violenta mette in seria crisi la speranza. E quando la speranza muore, il cielo si fa davvero buio e nella vita cala la notte, mentre prendono campo i démoni della disperazione e della rabbia.

Il pellegrinaggio a Roma durante tutto l’anno o alla Cattedrale nei mesi di maggio e giugno prossimi, come al santuario della Madonna dell’umiltà a Pistoia o a quello della Madonna delle grazie in Valdibrana si unisce al pellegrinaggio che, spiritualmente o materialmente dovremo compiere attraverso le opere di misericordia verso il prossimo, in specie i più bisognosi.

Attraverso il pellegrinaggio, la confessione sacramentale, l’indulgenza plenaria e le opere di misericordia, avremo occasioni per convertirci, per diventare cioè sempre di più uomini e donne di speranza che con la loro vita la seminano in questo mondo. È il frutto spirituale che attendiamo dal Giubileo.

Vorrei ora richiamare brevemente alcune parti della Bolla papale “Spes non confundit” di Papa Francesco il cui incipit abbiamo ascoltato in san Bartolomeo e che comunque invito a leggere per intero personalmente.

Dice il Santo Padre: «Oltre ad attingere la speranza nella grazia di Dio, siamo chiamati a riscoprirla anche nei segni dei tempi che il Signore ci offre… È necessario, quindi, porre attenzione al tanto bene che è presente nel mondo per non cadere nella tentazione di ritenerci sopraffatti dal male e dalla violenza.
Ma i segni dei tempi, che racchiudono l’anelito del cuore umano, bisognoso della presenza salvifica di Dio, chiedono di essere trasformati in segni di speranza.
Il primo segno di speranza si traduca in pace per il mondo, che ancora una volta si trova immerso nella tragedia della guerra. Immemore dei drammi del passato, l’umanità è sottoposta a una nuova e difficile prova che vede tante popolazioni oppresse dalla brutalità della violenza…
Guardare al futuro con speranza equivale poi anche ad avere una visione della vita carica di entusiasmo da trasmettere. Purtroppo, dobbiamo constatare con tristezza che in tante situazioni tale prospettiva viene a mancare. …Ma il desiderio dei giovani di generare nuovi figli e figlie, come frutto della fecondità del loro amore, dà futuro ad ogni società ed è questione di speranza: dipende dalla speranza e genera speranza.

Nell’Anno giubilare saremo chiamati ad essere segni tangibili di speranza, inoltre, per tanti fratelli e sorelle che vivono in condizioni di disagio. Penso ai detenuti nelle carceri e agli ammalati, che si trovano a casa o in ospedale. Le loro sofferenze possano trovare sollievo nella vicinanza di persone che li visitano e nell’affetto che ricevono.
Di segni di speranza hanno bisogno anche coloro che in sé stessi la rappresentano: i giovani. Essi, purtroppo, vedono spesso crollare i loro sogni. Non possiamo deluderli: sul loro entusiasmo si fonda l’avvenire.
Non potranno mancare segni di speranza nei riguardi dei migranti, che abbandonano la loro terra alla ricerca di una vita migliore per sé stessi e per le loro famiglie.

… come pure nei riguardi di tanti esuli, profughi e rifugiati, che le controverse vicende internazionali obbligano a fuggire per evitare guerre, violenze e discriminazioni.
Segni di speranza meritano gli anziani, che spesso sperimentano solitudine e senso di abbandono.

…Un pensiero particolare rivolgo ai nonni e alle nonne, che rappresentano la trasmissione della fede e della saggezza di vita alle generazioni più giovani.
Speranza invoco in modo accorato per i miliardi di poveri, che spesso mancano del necessario per vivere. Di fronte al susseguirsi di sempre nuove ondate di impoverimento, c’è il rischio di abituarsi e rassegnarsi. Ma non possiamo distogliere lo sguardo da situazioni tanto drammatiche, che si riscontrano ormai ovunque, non soltanto in determinate aree del mondo».

Ecco, fin qui, in estrema sintesi, alcune considerazioni di Papa Francesco che mi è parso utile richiamare, prima di concludere con un richiamo alla festa liturgica odierna.

La festa della Santa famiglia di Nazaret che si celebra oggi ci invita a vedere proprio nella famiglia un segno grande di speranza. L’amore che unisce un uomo e una donna e li spinge a formare una famiglia si nutre di speranza. Su di essa si fonda la convivenza e il cammino che si fa insieme. Per la famiglia di Nazaret, ciò che cementa l’unione e ne da il senso è appunto la speranza che la parola di Dio ha suscitato in essi, la fondata speranza nel compimento del disegno di Dio promesso e atteso. Così come l’apertura alla vita non è che un investimento nella speranza: i figli sono generati e crescono nella speranza appunto che possano gustare in pienezza la vita ed essere felici.

Nella santa famiglia di Nazaret, il figlio Gesù è il salvatore del mondo ed è lui la speranza stessa per tutta l’umanità. Proteggerlo, custodirlo, farlo crescere per Maria e Giuseppe ha significato investire sulla speranza che non delude.

Ecco allora, mi sento di invocarla questa Santa Famiglia: Santa Famiglia di Nazaret, aiutateci! Gesù, Giuseppe e Maria, fate che questo anno santo sia per noi e per tutta la chiesa anno di grazia e di profondo rinnovamento spirituale. Sostenete le nostre famiglie perché siano luoghi di amore vero e di incrollabile speranza. Aiutateci a portare speranza dove essa è morta o è in crisi.




Solennità di Natale 2024

Santo Natale 2024

(Messa del giorno di Natale – Pistoia, Cattedrale di San Zeno)

 

Cosa sarebbe il mondo se il Verbo non si fosse incarnato, se l’unigenito Figlio di Dio non avesse preso dimora presso di noi, assumendo la nostra natura umana?
Non so se abbiamo mai pensato a questa cosa, se abbiamo mai provato a considerarla o provato a rispondere. Rispondere a questa domanda ci può far capire la grandezza del dono che ci è stato fatto da Dio con la sua incarnazione.
E allora diciamolo con chiarezza: il mondo e l’umanità, se Dio non si fosse incarnato, sarebbero uno sfacelo completo. Se oggi il mondo, così come noi lo vediamo per tanti versi va male, se Dio non fosse venuto ad abitare tra noi, nel mondo non ci sarebbe nemmeno un barlume di speranza. Sarebbe una rovina senza alcuna luce di speranza. La speranza stessa sarebbe impossibile e questa parola sarebbe cancellata dal vocabolario delle parole umane.

Se il Verbo di Dio non si fosse incarnato, non si fosse fatto uomo, saremmo in una guerra totale di tutti contro tutti e ogni buon sentimento o buona azione sarebbe preclusa. Il mondo sarebbe completamente in balia del sopruso e del malaffare, la creazione completamente stravolta e ogni uomo sarebbe nemico all’altro.
Se qualche speranza ancora c’è nel mondo e il bene ancora abita il cuore dell’uomo, ciò è dovuto soltanto al fatto che ha preso forma umana l’amore assoluto di Dio; solo cioè perché un giorno, a Betlemme, si è impiantato nella storia dell’umanità il raggio luminoso della bontà divina. È così, che il mondo lo sappia o non lo sappia.
Ma se Dio non si fosse incarnato, l’umanità tutta, prima e dopo Cristo, sarebbe rimasta nel buio totale della notte senza alcuna speranza, nelle tenebre del male, preda del serpente antico, del principe delle tenebre e avrebbe regnato come indiscussa sovrana, la morte. Sarebbe stata solo e soltanto la società di Caino, la società fatta di fratelli che uccidono i fratelli; in definitiva non una società bensì un inferno di egoismi e prepotenze.
Occorre dunque che ci rendiamo conto almeno oggi e almeno noi cristiani, del dono immenso per l’umanità che è stato ed è il Natale di Gesù.

Per farmi capire azzardo un’immagine: chi è abituato alla luce del sole, neanche più si accorge di quanto sia bella, fondamentale, essenziale questa luce che non solo illumina ma da vita alla terra. E anche se vienela notte, poco male, perché sa che giorno verrà e di nuovo la luce invaderà il mondo. Neanche ci fa più caso a quella fonte necessaria di luce e di calore che è il sole. Ma se il sole non ci fosse e non ci fosse mai stato, la vita sulla terra sarebbe stata impossibile. E così, se d’improvviso il sole sparisse, sarebbe la rovina dell’umanità e forse la fine stessa della terra.
Quest’immagine, che naturalmente ha tutti i suoi limiti, può servirci a renderci conto di quanto sia stata e sia importante per noi, per l’umanità di ieri, di oggi e di domani, la nascita del Salvatore come uomo tra gli uomini; importante come quella di un sole che mai si esaurisce.

È la parola di Dio a ricordarcelo: “Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse”. Le parole del profeta Isaia ascoltate nella S.Messa di stanotte esprimono bene l’evento del Natale e la portata di grazia e di speranza che esso racchiude. A Betlemme si è accesa una luce dentro la storia densa di tenebra. È sembrata piccolissima, quasi insignificante come il vagito di un neonato, ma quella luce era la luce invincibile di Dio. In quel bambino “era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta”, ci dice il vangelo di Giovanni, che prosegue: “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo”.

Ecco perché siamo felici a Natale, perché facciamo festa, perché ci rallegriamo: una luce, quella della speranza, si è accesa nel mondo e se anche il male ancora miete vittime, ancora Caino sembra farla da padrone, chi accoglie quella luce in se stesso, sperimenta una vita nuova perchè quella luce da speranza al bene sopra la morte e sopra la cattiveria umana. Essa apre la porta del cielo, fa entrare aria fresca e ossigenata nel mondo, dala possibilità a chi lo vuole di “diventare figli di Dio, a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati.

Sì, cari amici e fratelli, siamo nella gioia, nonostante tutto,anche se c’è ancora tanto male in noi e nel mondo: abbiamo speranza, una speranza che non delude. Siamo nella gioia come lo è chi, seppur smarrito nel buio, vede finalmente arrivargli incontro una luce che gli mostra la via della salvezza.
Per questo, ancora con il profeta Isaia lodiamo Dio: “Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia. Perché tu hai spezzato il giogo che opprimeva l’uomo, la sbarra sulle sue spalle e il bastone del suo aguzzino.”
Ringraziamo davvero Dio con tutto il cuore. Esultiamo col cuore pieno di gioia perché Dio ha visitato il suo popolo e ci aperto la strada della piena felicità.

Ma è tutto fatto allora? Siamo a posto così? Basta forse la gratitudine pur fondamentale e necessaria per noi, tante volte distratti e inconsapevoli del dono stupendo che ci è stato fatto? Assolutamente no. No di certo, non basta!
Perché la gratitudine si deve trasformare in impegno, responsabilità e testimonianza. La luce va accolta in noi stessi e ci dobbiamo lasciare illuminare l’anima da questa luce. C’è da imparare a vivere in questa luce d’amore. C’è da imparare ad amare come il bambino Gesù ci ha insegnato. E se il mondo per tanti versi è ancora nelle tenebre, lo è solo perché questa luce di amore non è stata ancora accolta da tutti o non lo è stata pienamente.

La luce accesa Betlemme deve essere la lampada che rischiara il cammino della nostra vita sulla via del bene e non del male, dell’amore e non dell’odio, della pace e non della guerra. Per questo il Natale è anche il giorno nel quale siamo chiamati a scegliere da che parte stare, se dalla parte della luce o delle tenebre, dalla parte dell’amore o dalla parte dell’indifferenza e dell’odio, dalla parte della vita oppure della morte.

E con la speranza che non delude dentro di noi, dobbiamo scorgere e valorizzare tutti i segni di speranza che ci sono nel mondo e, nello stesso tempo, dobbiamo seminarla, questa speranza, come ci invita a fare il Giubileo che il Santo Padre ha aperto stanotte, seminarla nel cuore di chi l’ha perduta, laddove essa sembra morta a causa dell’ingiustizia, della violenza odella guerra, laddove c’è un uomo o una donna che soffrono.
Con questi sentimenti e questa volontà di stare dalla parte giusta, auguro a tutti voi davvero un Buon Natale.




Inaugurazione anno pastorale 2024/2025

Inaugurazione anno pastorale 2024/2025

Cattedrale di San Zeno – Pistoia (19 ottobre 2024)

 

Cinquanta anni fa iniziava un’impresa missionaria che per la prima volta vedeva impegnata direttamente la diocesi nel suo complesso. Nasceva la “Missão Pistoia” non come opera di privati ma come testimonianza missionaria di tutta la chiesa pistoiese. Alcuni sacerdoti si mettevano a disposizione di questa avventura evangelica, insieme a dei laici. Partivano per Manaus, in Amazzonia, in Brasile.

Me la ricordo bene quella stagione che interessò molte diocesi italiane. Il 1974 fu proprio l’anno della mia ordinazione sacerdotale, cinquant’anni fa, e anche dalla mia diocesi di origine, Lucca, partirono amici sacerdoti e laici per qualcosa che allora ci affascinava e ci faceva sentire davvero a servizio del Vangelo. Da Lucca come da Pistoia partivano non in cerca di onori o di primi posti – per riprendere il brano evangelico che abbiamo ascoltato ora – ma per mettersi a servizio di chiese sorelle che avevano bisogno; a servizio di popoli che attendevano la vicinanza di fratelli e sorelle disposti a bere il calice del Signore, fatto di fatica, di impegno e di tanto amore, anche a rischio della vita.

Questi uomini e queste donne hanno dato una bella testimonianza di Vangelo che è giusto davvero ricordare e per la quale rendere grazie al Signore, come facciamo stasera in un contesto che è particolarmente significativo: l’Eucaristia di inizio dell’anno pastorale, con la benedizione e il mandato ai catechisti e ai vari operatori pastorali.
Da allora, di acqua sotto i ponti ne è passata e tante cose sono cambiate nel mondo. Quella stagione missionaria si è conclusa col ritorno a Pistoia di don Umberto e poi di Nadia. Ma il seme gettato è stato importante e le testimonianze che abbiamo ascoltato all’inizio della celebrazione ce ne hanno fatto vedere la fioritura.

Considero una fioritura di quella stagione anche il fatto che in questi 50 anni, proprio da alcuni paesi che allora si consideravano “terre di missione”, hanno cominciato a venire per mettersi a servizio tra noi diversi sacerdoti “fidei donum”, missionari essi stessi in mezzo a noi, il cui apporto e contributo è importante per la nostra chiesa; si tratta di un dono penso ancora da apprezzare pienamente.

E poi, seppure una stagione è finita, la lezione che ci viene dall’esperienza della Missão Pistoia resta e deve restare come qualcosa di fecondo anche per noi oggi. Per la nostra Chiesa che ha concluso ora il suo ventesimo Sinodo e che è spinta dallo Spirito santo ad acquisire sempre di più uno stile sinodale per una missione e una testimonianza che oggi sappiamo essere fondamentale proprio qui, nelle nostre contrade, con le nuove generazione, in mezzo alla gente confusa ed incerta che ha perso il senso della vita o che ripone nel denaro lo scopo dell’esistenza.

La dimensione missionaria è fondamentale per la chiesa di oggi e di sempre, perché la chiesa esiste per la missione: così l’ha voluta il suo Signore. Essa non può non caratterizzare tutta la vita della chiesa e le concrete nostre parrocchie, ed è per questo che, dietro l’impulso di Papa Francesco, si parla della necessità di una conversione missionaria.

Così anche voi catechisti, come pure tutti gli operatori pastorali o partecipi, comunque, della vita delle parrocchie, vi dovete sentire dei missionari, missionari della misericordia del Signore, corresponsabili tutti, sinodalmente, insieme ai sacerdoti, ai diaconi e al vescovo, della missione, dell’annuncio del Vangelo, di quel servizio di cui Cristo ci ha dato l’esempio, lui che è non è venuto per essere servito ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti.

Colgo questa occasione, intanto, per dire a tutti voi un grazie sincero a nome del Signore stesso, per il vostro impegno e la vostra sensibilità. Siete parte viva della Chiesa pistoiese e collaboratori del Signore proprio nel servizio. Attitudine, questa, che deve caratterizzare ogni ministero e carisma nella Chiesa.

Anche la prima lettura ci richiama al servizio. Quello del servo di Dio che per giustificare la moltitudine, accetta l’umiliazione di addossarsi le iniquità degli uomini, offre se stesso in sacrificio, prostrato nel dolore.
Una lontana profezia di Cristo, questa di Isaia, che la lettera agli ebrei svela riconoscendo in Gesù il sommo sacerdote che ha condiviso la nostra vita come l’ultimo degli uomini; che con il suo amore ha preso parte alle nostre debolezze ed è stato messo alla prova in ogni cosa come noi.
Discepoli di questo Figlio di Dio, davanti a noi non abbiamo altra scelta che quella di essere servi per amore, donando la nostra vita disinteressatamente per gli altri e l’avvento del Regno di Dio.

Cos’è allora l’anno pastorale se non il cammino di discepoli che nel tempo imparano a seguire il loro maestro sempre di più sulla strada dell’amore vero, del servizio autentico, della generosa e gratuita dedizione? Guai, se considerassimo l’anno pastorale come una serie di attività, al modo di un’azienda che mette in atto opere per aumentare il fatturato e il guadagno, o se pensassimo a tutti i nostri impegni come ad un’opera della nostra volontà, alla fine inevitabilmente sterile, come ad un insieme di cose da fare per passare il tempo e produrre una qualche agitazione nella nostra città e nei paesi.

L’anno pastorale è invece, lo ripeto, il cammino di discepoli innamorati di Cristo che imparano a seguirlo sulla via del servizio, per raggiungere ogni uomo e donna e invitarli al banchetto delle nozze dell’Agnello. Significativamente, il motto della giornata missionaria che si celebra stasera e domani è: «Andate e invitate al banchetto tutti». Sì. L’anno pastorale e ogni attività pastorale, come ogni carisma, ogni servizio, ogni impegno nella parrocchia, deve avere come fine questo: imparare ad essere come il Signore servi che invitano tutti al banchetto della gioia, dell’amore vero, della fraternità, della pace, della vita eterna.

Mi permetto di insistere sul servizio perché è la cifra del nostro impegno nella chiesa e nel mondo. Qualche volta purtroppo, nelle nostre comunità capita che lo stile e la mentalità del servizio, vengano soppiantati da piccoli recinti di potere. La tentazione del potere può esserci nei ministri sacri ma anche nei laici che operano in parrocchia. Piccoli poteri, anche meschini direi, che a volte si autodifendono duramente e incrostano le parrocchie chiudendo di fatto la porta agli altri. Questo accade quando non ci si sa mettere da parte o si mantengono ruoli e compiti per anni e anni; quando si vuole condizionare la vita della parrocchia; quando i “nuovi” o i giovani vengono visti con diffidenza e si sottopongono alla dura legge del “qui si è sempre fatto così”. Quando però il servizio diventa il recinto di un pur piccolo potere, la comunità si frantuma, inaridisce e finisce per non essere più attrattiva.

Qui, dunque – e termino – la pagina evangelica di oggi dovremmo averla sempre sotto gli occhi: la richiesta di Giacomo e Giovanni è la richiesta di potere e onore; come dice il testo, la loro richiesta indigna gli altri apostoli, marca cioè una frattura nel gruppo.
Ma noi non vogliamo che questo accada. La parola di Cristo che vogliamo portarci via stasera, all’inizio del nuovo anno pastorale, 50° della Missão Pistoia e giornata missionaria mondiale è quella con cui egli redarguisce i suoi: «Fra voi non sia come nel mondo: il più grande sia il più piccolo e lo “schiavo” di tutti».




Ordinazione diaconale di Daniele Masciotra (15 settembre 2024)

Ordinazione diaconale di Daniele Masciotra

Cattedrale di San Zeno, Pistoia (15 settembre 2024)

 

Diciamo la verità: quante volte è venuta anche a noi la voglia di fare come Pietro, di prendere cioè Gesù sottobraccio in disparte e dirgli: “Signore, sta un po’ calmo. Non esagerare! Non ti mettere a proporre croci e fatiche. Poi la gente scappa, va via. Un po’ perché non è preparata, un po’ perché proprio non vuol stare a sentire di sofferenze, di essere rifiutata e messa da parte, di croci da portare. Forse è meglio che cambi discorso, o forse almeno l’approccio. Facciamo invece una bella pizzata, una bella sagra con un po’ di giochi e di allegria, vedrai che la gente viene, accorre. Del resto, anche te hai sfamato un sacco di gente una volta e la gente era tutta contenta. Poi hai visto? quando ti sei messo a fare quei discorsi un po’ astrusi e preoccupanti sul pane disceso dal cielo, quanti se ne sono andati? Tantissimi.”

Scusate queste espressioni un po’ colorite ma diciamo la verità: qualche volta ci è venuta senz’altro questa voglia e viene anche a noi ministri del Signore.
Ma Gesù, imperterrito tira dritto. Non fa sconti e ribadisce se qualcuno per caso avesse capito male: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua.” Come dire: “fate pure quello che vi pare; se volte andarvene, andate pure, ma ricordatevi che “Chi vuol salvare la propria vita, la perderà”, vi dico però anche che “chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà”.

Effettivamente Gesù ci mette con le spalle al muro. Non c’è spazio per tergiversazioni; per i se, i ma, i però. Gesù è netto e non si preoccupa del consenso. Come se non bastasse poi, rampogna addirittura a tal punto Pietro da rimanere quasi allibiti: “Va’ dietro a me Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”.

Ecco allora, carissimo Daniele e amici, fratelli e sorelle tutti: esattamente da questo rimprovero del Signore Pietro capiamo che il punto è imparare a “pensare secondo Dio e non secondo gli uomini”. La questione è chiara ed espressa molto chiaramente. “Pensare secondi Dio e non secondo gli uomini”. Poi però in pratica, da parte nostra arrivano i se, i ma e i però. Con la scusa che bisogna ascoltare il mondo, che occorre essere pronti ad accogliere tutto il buono che c’è nelle culture di oggi, nel modo di vivere degli uomini e delle donne di oggi; con la scusa oppure anche con la buonissima intenzione di essere inclusivi e accoglienti, mi domando se poi alla fin fine, senza neanche accorgercene, non finiamo per pensarla in tutto e per tutto come gli uomini e non secondo Dio.
Il Vangelo del Signore è senz’altro una buona notizia. Anzi è la buona notizia per ogni uomo e donna di ieri, di oggi e di domani. É Vangelo di misericordia e di perdono, è annuncio di speranza e di salvezza, è messaggio di amore, di riconciliazione e di pace.

Non possiamo però dimenticare che esso è, per questi stessi motivi, segno di contraddizione, pietra d’inciampo, provocazione e contestazione di un modo di vivere basato sull’io, sulla soggettività, sul potere, sulla sopraffazione dell’egoismo, sul calpestare la vita. Con il Vangelo, Dio “disperderà sempre i superbi nei pensieri del loro cuore, rovescerà i potenti dai troni, innalzerà gli umili, ricolmerà di beni gli affamati e rimanderà i ricchi a mani vuote”. Il richiamo al Magnificat lo faccio perché oggi, 15 settembre, è anche una memoria mariana, quella della Madonna addolorata, partecipe cioè fino in fondo della croce di Cristo. Colei che ha messo in pratica fino all’estremo le parole che Cristo nel brano evangelico di oggi, rivolge alle folle.

Impariamo dunque, carissimi amici, a “pensare secondo Dio” facendo attenzione a non assumere acriticamente il modo di pensare degli uomini. Credo che quotidianamente dovremmo chiederci: il mio modo di pensare e quindi di agire è “secondo Dio” oppure è un pensare di convenienza, di accomodamento, per interessi propri, per fini egoistici di potere, supremazia, apparenza, onore e gloria umana?

Le Scritture della Messa di oggi ci danno alcune indicazioni preziose per imparare a pensare secondo Dio: tre in particolare. la prima consiste nel rinnovare continuamente la nostra professione di fede nel Signore Gesù, morto e risorto per noi. “Chi sono io per te”, ci chiede quest’oggi Gesù. Lo chiede a me e a voi. Lo chiede a te Daniele. La risposta della fede è quella di Pietro: tu sei il Cristo. Cioè l’inviato di Dio per la nostra salvezza; l’atteso unigenito figlio, mandato dal Padre a riscattarci dal male. Questa fede, che è anche atto di fiducioso abbandono nel Signore, è quella che dobbiamo rinnovare ogni giorno. In essa vogliamo vivere e morire. Non diamola mai per scontata. Rinnoviamola anzi con l’ardore di tutto noi stessi. E facciamo si che essa diventi ogni giorno contemplazione del volto di Cristo, comunione con Lui, immedesimazione di cuore e di mente a Lui, Crocifisso e risorto.

Ma certo non basta, per “pensare secondo Dio”. Lo dimostra proprio l’apostolo Pietro che, subito dopo aver professato la fede, viene rimproverato da Gesù perché pensa secondo gli uomini. Qui ci risulta di monito la lettera di San Giacomo, quando, come abbiamo sentito, con chiarezza afferma che la fede senza le opere è morta. Perché se è pur vero che per fede il giusto è salvato, la fede autentica include necessariamente anche la conversione della vita e la volontà precisa e decisa di operare secondo verità, giustizia e carità. Ecco, dunque, tutto l’impegno necessario per far corrispondere alla fede, una vita, una mentalità, un operare concreto coerente con la fede professata. Anche se questo spesso significa andare contro corrente.

Infine, per imparare a pensare come Dio, occorre predisporci all’umiliazione, al rifiuto da parte degli altri, alla non considerazione, all’incomprensione, alla delusione delle nostre aspettative, all’insuccesso. Dobbiamo cioè piano piano imparare a non abbatterci per queste cose che sicuramente ci sono nella nostra vita – e ci saranno anche nella tua, Daniele, lo sai già anche tu. Vanno messe nel conto. Non possiamo scandalizzarci di esse; non dobbiamo sorprenderci anche se tutte queste cose ci creano amarezza e sofferenza. In mezzo ad esse, la nostra fiducia resta salda nel Signore. Ascoltiamo a proposito le parole di Isaia: “Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra. Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi”. Parole che evidentemente profetizzano la sorte del Figlio dell’uomo. Ma in Lui anche quella di ogni suo discepolo e suo ministro.




Chiusura del Sinodo diocesano (29 giugno 2024)

Chiusura del Sinodo diocesano (29 giugno 2024)

Cattedrale di San Zeno, Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo

 

Le domande dirette e incalzanti di Gesù a Pietro mi hanno sempre colpito molto, anche cinquant’anni fa, quando, giovanissimo, ricevetti l’Ordinazione sacerdotale nella Cattedrale di Lucca. Mi sono sempre risuonate nella mente e nel cuore e ho sempre visto davanti a me il volto del salvatore che coi suoi occhi penetranti, mentre mi domandava se lo amassi per davvero, mi scrutava con infinito amore fino nei più reconditi recessi dell’anima mia.

E ogni volta, oggi come allora, mi sento come si poteva sentire Pietro: disarmato, nudo davanti al Signore, povero, consapevole del suo limite, eppure sinceramente innamorato di Cristo. Velleitario in questo amore, perché per essere autentico ogni amore deve misurarsi con i fatti concreti; al tempo stesso però, paradossalmente, sincero: Tu sai tutto Signore! Tu sai come stanno veramente le cose! Tu sai che, nonostante tutto, in fondo all’anima, ho cercato di volerti bene cercando anche di aiutare gli altri a conoscerti e a volerti bene.

Quelle domande vorrei che il Signore continuasse a rivolgermele tutti i giorni della mia vita. Gli chiedo la grazia di ripetermele sempre senza stancarsi, perché sostengono la mia vita, soprattutto ora che il più di essa è passato e l’orizzonte si avvicina: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?”; Simone, figlio di Giovanni, mi ami?”; Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?” Si, Signore Gesù, abbi pazienza con me; continua a chiedermi se davvero ti amo.

Quello che mi ha sempre colpito è stato anche la conclusione ogni volta del Signore: “Pasci i miei agnelli”; “Pascola le mie pecore”; “Pasci le mie pecore”. In questa ripetuta conclusione di Gesù c’è la mia vocazione, tutta la mia vita, il senso di questa mia vita, spesa, pur con tutte le mie deficienze, a servire gli agnelli e le pecorelle del Signore. In tanti luoghi, attraverso tanti incarichi, fino all’ultimo, il più recente che mi ha consegnato in vecchiaia come a Zaccaria nuovi figli da amare e servire.

Per questo rendo grazie al Signore per il dono che mi ha fatto, per avermi chiamato al suo seguito, per avermi chiamato nel gruppo degli apostoli ed avermi affidato, pur ben conoscendo Lui la mia poca affidabilità, il suo preziosissimo gregge, per il quale Egli non ha esitato a versare tutto il suo sangue.
Stasera però siamo qui anche e soprattutto perché si è concluso davvero felicemente il nostro sinodo diocesano che ci ha visti impegnati nell’ascolto attento dello Spirito Santo, in modalità diverse, per ben due anni. I gruppi sinodali, i circoli minori, le assemblee sinodali, sono stati momenti intensi di ascolto e di confronto. Lo Spirito Santo ci ha guidato con mano paziente in questi stentati passi di sinodalità; ci ha preso per mano come bambini che imparano piano piano a camminare. E noi ci siamo lasciati guidare e ora possiamo dire davvero che quello che abbiamo detto e scritto è opera nostra e dello Spirito Santo in sinergia.

Nel primo anno, nella prima sessione sinodale, abbiamo cercato di capire quali fossero le principali sfide da affrontare come popolo di Dio inviato a testimoniare l’amore del Signore. Abbiamo cercato di cogliere le attese e le speranze, ma anche le angosce e le problematicità di noi e della nostra gente, dei nostri territori. Ne abbiamo individuate alcune che sono contenute nella prima parte del libro sinodale già promulgato lo scorso 25 luglio. Nel secondo anno, nella seconda sessione sinodale da poco conclusa, abbiamo invece cercato di trovare risposte alle attese individuate, indicando prospettive di impegno, di riforma della nostra chiesa, di conversione e di rinnovato lancio missionario. Stasera tutto questo lavoro mi viene consegnato perché lo prenda in attenta considerazione e quindi lo promulghi con l’autorità che è propria del servizio episcopale. L’intero libro sinodale sarà quindi consegnato alla Diocesi e a tutti nella prossima festa solenne di San Jacopo. Da lì partirà comunque una nuova fase del cammino diocesano, non meno importante e impegnativa di quella che si è appena conclusa: continuare l’impegno per acquisire stabilmente uno stile sinodale in tutte le articolazioni della nostra Chiesa; si aprirà quindi il tempo della ricezione dei dettati sinodali e della loro applicazione per il rinnovamento del volto e della vita della chiesa diocesana perché sia davvero lievito di speranza e di amore nella nostra società.

Mi sento davvero di rendere grazie al Signore per questo sinodo che abbiamo celebrato dopo ben 87 anni dall’ultimo. Ringrazio insieme al Signore tutti i sinodali che hanno dato prova di grande senso ecclesiale e hanno testimoniato l’unità bella e articolata della Chiesa diocesana. Ringrazio sentitamente tutti quelli – e sono tanti – che hanno lavorato e collaborato ad ogni livello per la buona riuscita del Sinodo, a partire dalla Commissione centrale guidata in modo esemplare dal Vicario e Segretario generale del Sinodo, don Cristiano.

Io scorgo nel cammino sinodale voluto da Papa Francesco per tutta la chiesa universale e per le chiese che sono in Italia e in modo particolare proprio nel nostro sinodo, una grande profezia, un grande segno di speranza per il mondo. Mentre nel mondo si fanno le guerre e nelle società ci si contrappone sempre di più in modo violento, la chiesa invece si raduna insieme, i suoi membri pur diversissimi e di orientamenti personali diversissimi, si confrontano mettendosi in ascolto umile della voce dello Spirito. La chiesa cerca cammini di comunione e di fraternità In questo senso va nettamente contro corrente, mostrandosi qual essa è: “Segno cioè e strumento dell’unità di tutto il genere umano”.

Non vogliamo però stasera fermarci quasi a farci i complimenti. Lungi da noi questo pensiero e questo comportamento. Ciò che è avvenuto è opera miracolosa dello Spirito Santo. A noi tutti, non solo a me, questa sera, sono rivolte invece le domande che il Signore pose a Pietro. Alla fine poi, quello che conta è rispondere a Lui: “Mi ami tu, chiesa di Pistoia?” “Mi vuoi bene per davvero?” Mi ami sul serio, chiesa di Pistoia, con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, in tutte le tue componenti?” Ecco le domande a cui non possiamo sottrarci. Tutto bello, tutto bene ma, al dunque, la questione è questa: “mi ami, tu, chiesa di Pistoia”.

E come a Pietro e a me, anche alla nostra Chiesa diocesana, il Signore chiede di dimostrare l’amore per lui, prendendoci cura degli agnelli e delle pecorelle del Signore. Ci chiede di essere una chiesa aperta, in mezzo alle fatiche e le sofferenze degli uomini e delle donne dei nostri territori. Chiesa in uscita per incontrare tutti e testimoniare a tutti l’amore del Signore.

Qui ci viene incontro il racconto degli atti degli apostoli nella prima lettura della Messa di stasera. Davanti a Pietro c’è un povero, c’è una persona che soffre. Pietro non ha niente da offrire. Ha solo il suo amore e la potenza dell’amore di Cristo. Prende per mano il povero e lo solleva nel nome di Cristo. Un gesto ricco solo della potenza delle fede e dell’amore per Cristo. E’ quello che è chiesto anche alla nostra chiesa. Di questa attenzione piena di amore verso chi soffre, di queste mani tese a rialzare, di questa fede grande nel Signore Gesù, deve essere fatta la vita delle nostre comunità e la loro testimonianza.

Al tempo stesso però, come ci insegna Paolo nella seconda lettura di oggi, non possiamo e dobbiamo dimenticare che il nostro ritrovato e rinnovato compito dell’annuncio, chiede fedeltà alla verità del Vangelo che non è nostro. Per cui non possiamo mai farci prendere dalla paura del mondo e di andare anche contro corrente. Non possiamo essere come banderuole che si adattano ad ogni corrente, prendendo dal mondo idee, concezioni di vita e comportamenti che niente hanno a che fare col vangelo di Gesù. Siamo chiamati piuttosto come chiesa ad essere fedeli al mandato apostolico, annunziando con coraggio e amore Gesù via, verità e vita. Dobbiamo poter dire con San paolo: “Il Vangelo da me annunciato non segue un modello umano; infatti, io non l’ho ricevuto né l’ho imparato dagli uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo”.

Concludo invocando la protezione celeste dei santi festeggiati oggi, davvero campioni della fede. Ad essi aggiungo anche il nostro San Jacopo che di essi è stato compagno fraterno, accumunato ad essi nella sequela di Cristo e nel martirio. San Pietro, San Paolo, San Jacopo pregate per noi ed aiutateci ad essere dei veri apostoli come lo siete stati voi e proteggete questa nostra terra e i suoi abitanti perché si sviluppi nella giustizia e nella pace.




Ordinazione presbiterale di Andrea Torrigiani (5 gennaio 2024)

venerdì 5 gennaio 2024
Epifania del Signore
Ordinazione presbiterale di Andrea Torrigiani

Come i magi d’oriente, anche tu, carissimo Andrea, ad un certo punto della tua ancor giovane vita hai alzato gli occhi al cielo e hai visto una stella più luminosa delle altre. Quella stella che brillava già dentro di te ma di cui ancora non ti eri accorto.
E l’hai seguita. Così, passo dopo passo, hai incontrato il Signore. Lui ti ha conquistato e tu ti sei lasciato conquistare. Lo hai potuto stringere tra le tue braccia perché il Signore si è presentato al mondo così, come un piccolo bambino da abbracciare. Lo hai adorato. La sua gioia ha inondato la tua vita.
In quell’incontro hai trovato altri amici che erano giunti anch’essi per adorare il bambino. Sono stati i tuoi compagni di viaggio, con i quali hai condiviso la bellezza di seguire il Signore.
Poi anche tu, come i santi magi, hai offerto al Signore quello che avevi, la tua vita, quell’oro, quell’incenso e quella mirra che erano la tua vita fatta di talenti preziosi e di debolezze e incertezze, fatta di gioie ma anche di sofferenza acuta e spiazzante.
Nell’incontro col Signore hai sentito infine la sua voce che ti chiamava. Hai cercato di capire meglio: si, era proprio la sua voce, convalidata dalla Chiesa. Era Lui che ti chiedeva di diventare pescatore di uomini; di lasciare tutto per essere ministro del suo amore presso le genti; di essere suo amico e collaboratore come operaio nella sua vigna.
Quella voce ti ha fatto sentire la compassione del Signore per la moltitudine che vaga come pecore senza pastore e ti ha chiesto di condividere la sua vita donata per la salvezza del mondo. E tu hai detto si. Pur con tutte le tue incertezze e paure, con il peso dei dubbi ma confidando nel Signore, ti sei messo alla scuola del Maestro imitando gli apostoli nei tre anni della sua vita pubblica.
Adesso, come ai magi dopo aver incontrato il re del mondo, anche a te è chiesto di tornare in mezzo alla gente, di incamminarti nei sentieri del mondo per esercitare in nome di Cristo il sacro ministero e innanzitutto annunciare le meraviglie della sua Misericordia che vuole raggiungere tutti gli uomini.
Ora ti è chiesto di andare ad annunciare il Regno di Dio. Ti è chiesto di farti tutto a tutti sull’esempio del Buon Pastore; ti è chiesto di salire il calvario della croce con Lui, significato nel sacrificio eucaristico della Messa, per testimoniare a tutti la potenza della risurrezione. Ti è chiesto di essere al servizio della comunità cristiana perché sia sempre di più popolo santo di Dio, corpo di Cristo, sale e luce del mondo.
Ma bada bene: non ti è chiesto di essere un funzionario o un mestierante a tempo; non ti è chiesto di svolgere semplicemente una missione, bensì di essere tu stesso “missione”, unito a Cristo e con la forza del suo Santo Spirito.
Coltiva perciò nel tuo cuore e nella tuia mente quella convinzione forte che era in S. Paolo e che abbiamo ascoltato nella seconda lettura dalle sue parole: “che tutte le genti cioè sono chiamate in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del vangelo”. Sappi che sei stato scelto per essere uno strumento di Dio al fine di realizzare questo disegno. Un disegno di unità e di amore di cui oggi si fa fatica con gli occhi solo umani a vederne la possibilità perché, come ci ha detto il profeta Isaia, “la tenebra ricopre la terra e nebbia fitta avvolge i popoli”, ma che con gli occhi della fede se ne scoprono i segni e lo si vede pian piano realizzarsi come il granello di senape che diventa albero grande.
Tu quindi non ti scoraggiare. Fai attenzione proprio alla tentazione dello scoraggiamento. La più terribile di tutte le tentazioni. Cerca di fare in modo che le incertezze nel cammino, le varie difficoltà, l’aridità nelle risposte alla tua azione, i tuoi stessi peccati e debolezze, l’opacità di una chiesa non sempre nelle sue membra all’altezza del proprio compito di testimonianza, la stanchezza e i richiami del mondo ad una vita comoda ed individualista, la solitudine di certi momenti e il vuoto di affetti, ecco, cerca di fare in modo che tutto questo non generi mai in te scoraggiamento e ti faccia cadere le braccia preso dallo sconforto.
Anche qui la vicenda dei santi magi risulta molto istruttiva: essi, avvisati in sogno, se ne vanno via da Betlemme per altra via, evitando Erode e tutte le sue tentazioni. È l’invito anche per te a fare attenzione a tutte le tentazioni che incontrerai per la strada. È l’invito ad un cammino di conversione, a percorrere cioè non la strada larga e spaziosa del mondo ma l’altra strada, quella della conversione e della vita vera. E ti sosterrà nel cammino, stanne certo, il ricordo di quella madre che anche i magi incontrarono a Betlemme e che offrì loro il bambino perché lo adorassero. La memoria e la presenza della Madonna nella tua vita ti sarà di conforto e di concreto sostegno in ogni istante. Porta con te sempre il suo ricordo e ritroverai in ogni istante anche di smarrimento la strada di casa, quella del Signore.
E a noi tutti che questa sera attorniamo il nostro Andrea nella festa dell’Epifania che cosa dice il Signore?
Ci dice – secondo me – esattamente quanto abbiamo ascoltato all’inizio della prima lettura dal profeta Isaia: “Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te”.
Si, carissimi fratelli e sorelle: Alziamoci – è questo l’invito autorevole e amorevole di Dio. Lasciamoci rivestire di luce, accesi al fuoco vivo del Signore. Non cediamo al lamento, non abbandoniamo l’impegno, non annacquiamo la nostra fede, non accettiamo troppo facilmente i compromessi, non giustifichiamoci per la difficoltà dei giorni che stiamo sperimentando nel mondo e nella chiesa! Rinnoviamo piuttosto la nostra fede. Adoriamo anche noi il bambino e stringiamolo con amore tra le braccia, stringendolo anche presente nei nostri fratelli e sorelle bisognosi di attenzione e di amore. Dio ci ha messo a vivere in questo mondo e in questo tempo. Egli, nella sua insondabile sapienza, ha pensato che fossimo noi a dover dare testimonianza di Lui in questo frangente della storia. Siamone orgogliosi, pur riconoscendo tutte le nostre incapacità. Cerchiamo allora di essere fedeli nel poco che ci è dato e di adempiere al meglio la nostra missione nel mondo. Il cammino sinodale che stiamo percorrendo e nel quale siamo impegnati a fondo, nella sua sostanza intende essere proprio questo: un invito pressante del Signore ad alzarci, a rivestirci della sua luce, per dare, insieme, attraverso una comunione riaffermata e vissuta fatta di condivisone e partecipazione, testimonianza della vicinanza amorevole di Dio ad ogni creatura.
E in ultimo una raccomandazione: preghiamo e continuiamo a pregare perché il Signore mandi ancora operai nella sua messe e molti giovani o meno giovani rispondano alla chiamata. Ma non per deresponsabilizzare tutti gli altri membri del popolo di Dio pagando tributo ad un’abitudine clericale dura a morire. Piuttosto per essere, nella pluralità dei doni e dei ministri, un popolo tutto quanto sacerdotale, regale e profetico.




Lettera alla Diocesi in occasione della nomina a Vescovo di Pescia (14 ottobre 2023)

Carissimi presbiteri e diaconi, religiosi, religiose e fedeli tutti della diocesi pistoiese,

con questa mia lettera vi comunico una novità che coinvolge me in prima persona ma sicuramente anche tutti voi.
Il Santo Padre Francesco mi ha nominato Vescovo di Pescia, chiedendomi di diventare a tutti gli effetti il Pastore di quella chiesa sorella, mantenendo però nello stesso tempo il servizio alla diocesi di Pistoia.
Quindi d’ora innanzi sono vescovo di Pistoia e Vescovo di Pescia.

Mi sono reso disponibile alla richiesta del Papa perché questa disponibilità racconta la storia di tutta la mia vita, nonostante i miei numerosi limiti: non saprei fare altrimenti.
La decisione del Santo Padre porta sulle mie spalle indubbiamente un carico nuovo quando, tra l’ altro, l’ età si comincia a far sentire. Confido però nella certezza di fare la volontà del Signore e non la mia. Mi conforta anche il fatto – come i semplici credo ai piccoli segnali della Provvidenza – che la prima comunicazione di questa eventualità e poi la comunicazione definitiva mi sono giunte, l’una mentre ero a Lourdes durante la Messa internazionale e l’altra, il giorno della Madonna del Rosario.

Vi scrivo come a fratelli ed amici, nonché figli, perché d’ ora innanzi abbiate ancor più pazienza nei miei confronti. Dovrò infatti necessariamente essere presente alla vita della diocesi pesciatina ed anche in un modo del tutto particolare perché la decisione del Santo Padre arreca senz’ altro un po’ di amarezza al suo clero e a i suoi fedeli. Insieme ad un di più di pazienza, vi chiedo anche un maggior impegno carico di responsabilità.

La vita della diocesi di Pistoia non deve avere a soffrire da questa novità e, anzi, rimboccandosi le maniche, deve saper affrontare con animo concorde la nuova situazione. Aprendosi anche – e questo sarà senz’altro un grande arricchimento – alla vita della Chiesa sorella di Pescia. Il cammino della nostra Diocesi continua, soprattutto per portare a termine la splendida avventura sinodale che stiamo vivendo.

Cerchiamo di fare in modo che non venga meno lo sforzo ma prima di tutto la preghiera allo Spirito perché ci consoli e ci guidi verso quel rinnovamento fraterno e missionario che ci è chiesto.

Vi abbraccio tutti con affetto. Il prossimo otto dicembre saranno nove anni che sono tra voi. Il nostro legame si è approfondito e vi porto davvero nel cuore con gratitudine e gioia.
Non sono mancate e non mancano prove e tensioni . È la vita. È la vita cristiana non si sovrappone o affianca ad essa ma la assume e la trasfigura.

Vi voglio bene e che il Signore vi benedica.
Pistoia 14 ottobre 2023
Fausto Tardelli




Conclusione prima sessione del Sinodo Diocesano

Conclusione prima sessione del Sinodo Diocesano
(sabato 24 giugno – Cattedrale di San Zeno)

 

Si conclude questa sera la prima sessione del sinodo diocesano. Vogliamo innanzitutto rendere grazie a Dio per quello che è avvenuto e sta avvenendo: l’aver cioè cominciato, sotto l’impulso dello Spirito Santo, ad assumere uno stile sinodale nella nostra chiesa che vuol dire camminare insieme come popolo di Dio, corresponsabili della missione del Vangelo; l’aver inoltre ascoltato e individuato attraverso un discernimento comunitario, guidato sempre dallo Spirito Santo, quelle che sono le principali attese di Vangelo presenti in noi e nelle persone dei nostri territori; quelle sfide che lo Spirito Santo ci mette davanti e alle quali occorre rispondere.

Abbiamo sperimentato di essere chiesa, popolo santo di Dio, pur con tutti i nostri limiti; popolo radunato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Abbiamo sicuramente provato anche la fatica e la lentezza necessaria per ascoltarci e ascoltare. Tutto questo però è stato ed è salutare perché appunto si tratta di una conversione in atto che lo Spirito Santo sta ispirando a tutta la nostra chiesa.

Insieme abbiamo cercato di ascoltare le attese di Vangelo presenti nella nostra vita e in quella delle persone che vivono nei nostri territori. Abbiamo individuato quindi alcune sfide che lo Spirito del Signore ci mette davanti e alle quali occorrerà rispondere con generosità e fantasia. Le elenco semplicemente: l’attesa di Vangelo e di nuovi cammini educativi; il nostro tempo come occasione di speranza; l’attesa di relazioni umane significative; l’attesa di fraternità; la famiglia e i suoi bisogni; la donna come dono e responsabilità; l’ascolto, la cura e l’intergenerazionalità tra giovani e anziani; i migranti e le loro attese; il bisogno di una Chiesa “nuova”, rinnovata profondamente dallo Spirito. Su queste strade, lo Spirito del Signore ci sta spingendo e sarà il discernimento comunitario ancora da svolgere nell’anno prossimo a portarci, con la celebrazione della seconda sessione finale del Sinodo diocesano, ad alcune fondamentali scelte pastorali di conversione che riguarderanno tutta la diocesi e le singole parrocchie, i gruppi, le associazioni e i movimenti.

Il tempo della responsabilità che non viene mai meno e il confronto con le nostre miserie, non ci impediscono però di dire grazie con tutto il cuore a Dio per ciò che ci è stato dato di comprendere e per l’esperienza viva di chiesa che abbiamo fatto e che stiamo facendo.

Siamo forse privi di difetti? Assolutamente no? Siamo davvero una risposta credibile all’amore del Signore? Credo di no, tante volte. Però abbiamo tentato di essere docili allo Spirito ed Egli ci ha preso sul serio e ci ha portato avanti. L’esperienza che abbiamo fatto insieme e che ripeteremo ancora non passerà facilmente nel dimenticatoio della nostra Chiesa. Rimarrà anzi come una pietra miliare che l’ha segnata in un passaggio storico decisivo ed epocale.

La prima lettura ci ha detto che siamo un popolo in cammino; tante volte in mezzo all’aridità del deserto provocato dal nostro peccato e dal peccato del mondo. Ma è un cammino di liberazione, di rinascita, di vita nuova, lungo il quale si sperimentano le grandi opere di Dio. Siamo allora invitati a non dimenticare. “Non dimenticare”: importantissimo, per noi smemorati e per questo tempo così spesso privo di memoria. “Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio, ti ha fatto percorre nella tua storia”, ci ripete il Signore. È stato anche un cammino di prova, segnato da debolezze e peccati. Ma il Signore ci chiede di guardare avanti e di non fermarci a piangerci addosso. Ci chiede di considerare il suo amore e di capire che noi possiamo vivere e vivere in pienezza se ci nutriamo di quanto esce dalla sua bocca.

La seconda lettura parla ancora di noi e ci dice che siamo tutti diversi e che questa diversità e varietà è un bene, una ricchezza. Ma ci dice anche che siamo un “corpo”, un organismo vivente e unito. Anzi, noi non siamo un corpo qualsiasi, bensì il Corpo di Cristo. Questa è la nostra identità. Lo siamo come chiesa diocesana unita alle altre chiese sparse nel mondo a formare la Cattolica; lo sono tutte le comunità parrocchiali, interconnesse l’una alle altre dentro la chiesa diocesana. Così le comunità religiose, i gruppi, i movimenti. È l’ora veramente di finirla di andare avanti ognuno per conto suo, come se fossimo un organismo sezionato in mille pezzi. Pensiamo forse di poter vivere, staccandosi e non relazionandosi con gli altri? La morte dell’organismo è il destino di un organismo sezionato e disperso! L’esperienza sinodale che stiamo facendo è illuminante in proposito: conta il camminare insieme. Conta il mettersi insieme in ascolto dello Spirito che parla a noi in tanti modi, anche nella storia, nella vita dei nostri fratelli e di noi stessi, come nella chiesa universale guidata dal santo Padre. Che questo stile sinodale caratterizzi d’ora in avanti tutta la nostra chiesa, nel rispetto naturalmente della specificità dei ruoli e dei compiti, ma forti del dono del battesimo che ci ha fatto tutti in Cristo, sacerdoti, re e profeti. “ora noi siamo il corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte”.

Il brano evangelico di questa sera, ripreso da domenica scorsa è particolarmente bello e significativo per noi. È il brano che sta alla base del nostro cammino sinodale. Ci siamo mossi infatti per ascoltare le attese di Vangelo presenti in noi e nei nostri territori, per essere poi strumenti efficaci dell’amore di Cristo.

In sostanza, ho chiesto a tutta la diocesi convocandola in Sinodo di imparare ad assumere lo sguardo di Cristo sull’umanità e sul mondo. Quello sguardo pieno di misericordia e di tenerezza che commuove il cuore di Cristo e lo spinge alla missione di salvezza. “Gesù, vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore”. E a questo sguardo pieno di amore e di tenerezza segue la risposta: la ricerca di operai per la messe che gli occhi del Signore vede abbondante. Ed ecco la chiamata dei dodici.

Noi ci vogliamo proprio muovere sulle orme del nostro Redentore. Vogliamo fare esattamente come Lui. Anzi, lo abbiamo già anche fatto, almeno nel tentativo e nell’impegno: guardare in noi e attorno a noi la messe abbondante che attende di essere mietuta; ascoltare la stanchezza e la sfinitezza dell’umanità; il disorientamento e la confusione di chi non ha un pastore giusto e buono che lo guidi.

Con la seconda sessione del Sinodo che si apre tra poco, il 25 di luglio, nella festa solenne di San Jacopo nostro Patrono, cercheremo anche noi di fare esattamente quello che fece Gesù: rispondere cioè alle sfide, con la missione di tutta la nostra chiesa; con una conversione missionaria. Riscoprendo di essere mandati Lui come gli apostoli che abbiamo ascoltato nel Vangelo essere stati chiamati da Lui. Anche noi saremo chiamati per nome dal Signore che ci rinnoverà il mandato e ci inviterà a lasciarci guidare ancora dallo Spirito santo per rispondere alle sfide che abbiamo individuato in questa prima sessione sinodale.

Nella gratitudine, col cuore pieno di riconoscenza, continuiamo a chiedere il dono dello Spirito, l’assistenza materna della Vergine Maria e del nostro amico e fratello San Jacopo.

+ Fausto Tardelli




Solennità di Pentecoste 2023

Veglia della Solennità di Pentecoste  (27 maggio 2023)

Chiesa di San Francesco d’Assisi – Pistoia

Per i discepoli di Cristo, l’evento della Pentecoste fu sicuramente qualcosa di dirompente. La narrazione biblica lo evidenzia con chiarezza introducendo segni di particolare effetto. Lo abbiamo ascoltato.

Aldilà però delle modalità narrative dell’evento, che si trattò di qualcosa di estremamente significativo, lo si può constatare dall’inaspettato e di per sè incomprensibile espandersi della comunità apostolica, avvenuta attraverso la testimonianza e la predicazione di uomini che fino a poco tempo prima non avevano certo dato buona prova di sè.

Fuggiti via al momento della cattura di Gesù e della sua crocifissione, li ritroviamo improvvisamente estroversi, lanciati fuori dal chiuso del cenacolo, “in uscita”, diremmo noi oggi con Papa Francesco. Coinvolti in un movimento espansivo inarrestabile che li portò anche lontano da Gerusalemme e che costò anche la vita a gran parte di loro. Qualcosa certamente di umanamente inspiegabile, se misurato con le corte possibilità di quegli uomini.

L’evento della Pentecoste però non si esaurisce in quel lontano momento. Accompagna la chiesa nei secoli e ne siamo personalmente coinvolti. Come già gli apostoli e i discepoli del Signore, anche noi chiesa di Pistoia, con la festa di Pentecoste riceviamo nuovamente e con abbondanza il dono dello Spirito.

In questo tempo sinodale stiamo imparando a camminare insieme. Con fatica e lentezze; tra tentennamenti e difficoltà; ma anche con entusiasmo e gioia, dovuti alla certezza che lo Spirito Santo ci sta guidando, perché ci siamo affidati a Lui e abbiamo espresso la volontà di lasciarci guidare da Lui, sospinti dal suo soffio vitale. Sulle ali dello Spirito, ci siamo messi insieme alla scoperta di un Dio che è Padre misericordioso, per imparare a servire da poveri i poveri e dar vita a comunità cristiane davvero fraterne e missionarie. Il soffio dello Spirito si sente. Lo percepiamo concretamente. Nel percorso che siamo facendo, nel nostro incontrarci, nel nostro metterci in ascolto, lo Spirito Santo opera e oggi, giorno di Pentecoste, lo vogliamo riconoscere e ringraziarlo. Si tratterà certo di restare docili al suo soffio ancora, percorrendo con coraggio le strade che ci sta indicando. Intanto però lo sentiamo presente, lo percepiamo, ne siamo gioiosamente ripieni.

Col Sinodo diocesano ci siamo posti in ascolto del Signore e l’uno dell’altro. E’ ben giusto che, sinodalmente, a Pentecoste, padri e madri sinodali, rappresentanti di tutte le parrocchie, associazioni e movimenti, presbiteri, diaconi, religiose e religiosi, invochiamo ancora una volta il dono dello Spirito, testimoniando il suo passaggio nella nostra vita e verificando il cammino compiuto.

Rinfranchiamo così il passo, perché sia più spedito lungo le strade dove fratelli e sorelle feriti nel corpo e nello spirito attendono il Vangelo della speranza, e nella storia si anticipino quei segni del Regno che ci sarà donato in pienezza alla fine dei tempi.

Sono tre in particolare le cose che lo Spirito Santo realizza coinvolgendoci e chiedendoci piena disponibilità: il miracolo dell’unità nella diversità, il rinnovamento della faccia della terra e la guida verso la verità tutta intera attraverso il discernimento della sapienza.

E’ innanzitutto opera dello Spirito che genti diverse, persone e popoli differenti possano trovare armonia articolata e complessa ma vera. Lo Spirito Santo crea comunione; le differenze di ciascuno non sono umiliate e negate, bensì valorizzate e accolte, allacciate in solidi legami di fraternità, fino al compiersi del miracolo della unità molteplice. La chiesa, del resto, che prima di essere di uomini è opera dello Spirito, si manifesta esattamente così: popolo variegato nei doni, nei carismi e nei ministeri; unita però in un solo corpo, quello di Cristo. Questo miracolo è ben sotto i nostri occhi quando vediamo oggi una colorata pluralità di uomini, etnie, culture e popoli far parte a pieno diritto della chiesa, in un modo che nemmeno gli apostoli avrebbero mai immaginato. Ad esso si contrappone – ed è peccato contro lo Spirito – l’ostinato individualismo di alcuni, la pretesa solipsistica di pensare di poter fare da sè e la caparbia volontà della ricerca del proprio esclusivo interesse. Nella chiesa come nel mondo.

La seconda cosa che dobbiamo dire dello Spirito è che Egli è dentro la storia, la anima, la rinnova, ispirando nel cuore delle persone il bene operare per l’utilità comune. Nonostante ogni vento contrario, anche in questo terribile frangente della storia, quando il futuro è pieno di incertezza, la casa comune va in rovina e gli umici si consumano nel fratricidio, lo Spirito continua ad operare e non si allontana dal mondo.

Egli sospinge la creazione verso il suo compimento e suscita ogni pensiero e gesto d’amore, anche il più piccolo dandogli forza; ogni anelito di giustizia, ogni speranza di un mondo migliore, ogni conoscenza che si volge alla pace, ogni ricerca scientifica che sia per il bene dell’umanità.

Egli ispira gli artisti col fascino della bellezza; muove alla generosità chi si dona alla causa degli altri; sostiene la testimonianza degli operatori di pace, dando forza a coloro che offrono letteralmente la vita per un mondo migliore. Così lo Spirito Santo rinnova la faccia della terra e prepara cieli e terre nuove in cui abita la giustizia. Lo Spirito Santo opera instancabilmente ma attende la nostra collaborazione, il nostro pieno coinvolgimento. Come dicevo, nel creare unità fraterna e anche nella trasformazione del mondo nel Regno di Dio.

La terza azione dello Spirito è – secondo la promessa di Gesù – di guidarci alla verità tutta intera attraverso il discernimento sapienziale. E’ esattamente quello che stiamo sperimentando e che si esprime nel camminare insieme nel sinodo. Stiamo imparando a discernere le attese di vangelo presenti nel mondo e a individuare le strade per rispondere a queste attese. E la cosa davvero significativa è che lo Spirito non ci sta guidando per qualcosa che si esaurisce con la celebrazione del Sinodo ma ci sta indicando uno stile, un modo di essere chiesa in comunione, nella partecipazione, nella gioia e nella missione. Si tratta di uno stile sinodale da acquisire come modalità permanente del nostro essere chiesa, profezia di unità e di amore nel mondo di oggi. Chi si fa guidare da Lui e si lascia sospingere dalla brezza leggera dello Spirito che parla di pace e d’amore, diventa, dentro la chiesa e anche oltre i suoi confini visibili, un vero costruttore di umanità che nessun ostacolo può veramente fermare. Così sia per tutta la nostra chiesa.




Diaconato Andrea Torrigiani

III° Domenica di Pasqua (Cattedrale di San Zeno Pistoia, 23 aprile 2023)

Diaconato Andrea Torrigiani

La terza domenica di Pasqua con le sue letture bibliche ci accompagna nel cammino in compagnia del Risorto e ci permette di continuare ad assaporare la gioia luminosa della Risurrezione di Cristo. La festa si contorna quest’oggi di circostanze che ne fanno apparire ancora di più la bellezza: il fatto del Sinodo diocesano che stiamo celebrando e l’Ordinazione di Andrea al diaconato.

Quanto al nostro sinodo, mi fa oltremodo piacere leggervi il saluto benedicente che il Santo Padre in persona ci ha voluto inviare, incoraggiandoci a proseguire nel cammino intrapreso… (lettura della lettera). Con la benedizione del Santo Padre, nei prossimi giorni entreremo nel vivo dei lavori sinodali. Con l’Eucaristia di stasera rendiamo grazie a Dio per il dono del suo Spirito e insieme invochiamo ancora con grande fiducia l’assistenza di questo Santo Spirito.
Quanto al diaconato che verrà conferito a un figlio della nostra chiesa, non possiamo che raddoppiare la nostra gratitudine al Signore per il dono che ci fa. E proprio sul diaconato vorrei fare una prima riflessione.

Diacono vuol dire servitore. Domandiamoci però quale sia il servizio a cui il diacono è chiamato, tanto da essere segno di quello a cui è chiamata tutta la chiesa. Mi pare necessario precisarlo perché a volte, di questo servizio, si danno interpretazioni che rischiano di perdere di vista il significato vero del ministero a cui il diacono e l’intera chiesa è chiamata.

Dovrebbe dunque essere chiara una cosa: il servizio a cui il diacono è chiamato è sempre ed unicamente a Cristo Signore: a Lui che nasce e che cresce, a lui che predica e compie i miracoli, a lui che muore sulla croce, è deposto in un sepolcro e risorge vittorioso dalla morte. Significa aiutarlo a portare la sua croce, raccoglierlo esanime tra le braccia, deporlo amorevolmente nel sepolcro per annunciarlo risorto, predisponendo la mensa su cui Egli si dona come pane della vita.

Servire Cristo Signore però – qui sta il punto – è sempre anche servire con amore tutto il suo corpo di cui Egli è il capo, quel corpo fatto di membra concretissime e diverse. Non c’è mai dicotomia nel servizio del vangelo: si è chiamati a servire sempre e innanzitutto Cristo ma lo si fa concretamente servendo anche le pecorelle del Signore, soprattutto direi quelle che non appartengono al gregge o che si sono ferite, smarrite o perdute.
La celebrazione eucaristica è esattamente il momento in cui il mistero di Cristo e del suo corpo si rende evidente, si vive e se ne è sempre più partecipi: servendo al mistero eucaristico, il diacono serve Cristo Signore e, proprio per questo, nello stesso tempo si pone al servizio di quel corpo che Dio ha costituito come suo popolo. Non ci può dunque mai essere dicotomia tra celebrazione e vita: la celebrazione liturgica significa, alimenta e impegna la vita mentre la vita si feconda nella celebrazione liturgica del mistero pasquale.

La prima lettura di stasera che ci propone l’annuncio fatto da Pietro di Cristo Salvatore, l’annuncio cioè della salvezza in Cristo, è l’esempio di questo servizio apostolico del diacono e della Chiesa tutta. Ci fa capire che se servire il prossimo vuol dire si, come ha fatto Gesù, guarire i malati, sanare gli storpi e i lebbrosi, ridare la vista ai ciechi o dar da mangiare a chi ha fame, esso vuol dire anche annunciare Gesù Cristo morto e risorto come unico salvatore del mondo e annunciare in Lui la remissione di ogni peccato. Sempre con la chiara coscienza, come lo stesso Pietro ci dice nella sua lettera da cui è tratta la seconda lettura della Messa odierna, di essere dei salvati, gente a cui è stata usata misericordia e che quindi non può accampare diritti perchè tutto nella sua vita è grazia: “voi sapete che non a prezzo di cose effimere, come argento e oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta, ereditata dai padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, agnello senza difetti e senza macchia”.

Lo stupendo brano evangelico ci richiama infine esso stesso al compito della chiesa nel mondo. Vi vedo adombrato anche quello del diacono. Questi, infatti, immagine di Cristo servo, è chiamato ad accompagnare gli uomini e le donne delusi e amareggiati, sconfortati dall’infrangersi sulla durezza della vita dei sogni di bene portati nel cuore, persone smarrite similmente ai discepoli di Emmaus. Come il divino maestro, il diacono è chiamato a farsi compagno di strada delle persone e a rincuorarle con l’annuncio della parola e la luce del vangelo, da offrirsi non dall’alto di un piedistallo di superiorità clericale ma in una fraterna compagnia che susciti alla fine in chi viene accompagnato, il desiderio di ascoltare ancora e di conoscere qualcosa di più sul destino della propria vita. Chiamato a far ardere il cuore di coloro a cui si accompagna, il diacono diviene segno dell’opera stessa della chiesa, chiamata appunto a farsi compagna di strada delle varie generazioni che si susseguono nel tempo, suscitando una commozione nel cuore che lo faccia ardere di speranza e aprire all’incontro con il Signore crocifisso e risorto.

C’è però una regola in tutto questo: che per primo cioè il diacono, come ogni cristiano, si sia fatto accompagnare lui stesso e si faccia accompagnare ogni giorno lui stesso dal Maestro che istruisce sul senso della vita, comunica il suo amore senza limiti e spezza il pane per lui. Solo da questo continuo camminare insieme a Gesù, la Chiesa trova la forza di essere annunciatrice della buona notizia del Regno di Dio e di servire ogni uomo e donna, specie i più poveri, nel nome del Signore. Solo da questa assidua frequentazione del divino e misterioso viandante, per cui ogni giorno il cuore arde nel petto, il diacono come ogni cristiano, potrà adempiere in modo autentico la propria missione a lode e gloria di Dio.

È questo che auguro con tutto il cuore a te stasera, carissimo Andrea e che auguro all’intera nostra chiesa pistoiese in sinodo.