Lutto nella Chiesa Pistoiese: è morto don Fernando Grazzini

Ieri 19 novembre si è spento all’età di 91 anni don Fernando Grazzini.

Don Fernando Grazzini, nato il 16 luglio 1927 a Casalguidi, è stato storico parroco della Parrocchia di Sant’Andrea a Pistoia.

Ordinato sacerdote nel 1950 don Fernando è stato cappellano presso la Parrocchia della Vergine fino al 1952, quindi parroco a Piazza fino al 1969. Don Fernando ha poi insegnato per diversi anni nel Seminario Diocesano, prestando servizio anche come assistente diocesano dalla Gioventù femminile di Azione Cattolica. Dal 1967 ha svolto il suo ministero presso la parrocchia di Sant’Andrea, dove è rimasto in carica fino al 2015. Canonico dal 1963, dal 1986 fino al 2015 è stato anche amministratore parrocchiale della parrocchia di San Filippo e assistente AGESCI del Pistoia 1. Per quasi quarant’anni è stato presbitero della comunità neocatecumenale.

Negli ultimi anni don Fernando è stato pesantemente segnato da una vecchiaia che gli ha tolto lucidità e lo ha sempre più fiaccato nel fisico. Ha abitato fino agli ultimi giorni nella canonica di Sant’Andrea, dove ha trascorso gran parte della sua esistenza, nella parrocchia che tanto lo ha apprezzato e tanto ha ricevuto dal suo servizio umile e fedele. Don Fernando è stato, tra l’altro, un uomo di grande carità: una carità silenziosa, fatta di ascolto paziente e personale che lo spingeva ad accogliere col sorriso quanti bussavano alla sua porta.

Don Grazzini sarà esposto al saluto di fedeli e amici nella chiesa di Sant’Andrea a partire dal pomeriggio di oggi, 20 novembre. Le esequie, presiedute da Mons. vescovo Fausto Tardelli, saranno celebrate domani, mercoledì 21 novembre alle ore 15 sempre nell’antica pieve di Sant’Andrea.

redazione




Accanto ai poveri in un mondo ferito. La missione delle Francescane dei Poveri

Domenica 18 novembre si celebra la seconda Giornata Mondiale dei Poveri istituita da Papa Francesco. Nella nostra città l’attenzione verso chi è più fragile e bisognoso è la missione quotidiana delle suore Francescane dei Poveri. Una presenza discreta ma operosa che in occasione di questa Giornata offre la propria riflessione e testimonianza.

Quante situazioni di sofferenza ed emarginazione avete incontrato in questi anni a servizio dei poveri fino ad oggi? Quali sono i vostri ambiti di evangelizzazione e servizio?

Per noi Suore Francescane dei Poveri il 2018 è un anno importante perché celebriamo i 20 anni della nostra presenza a Pistoia. Sono tante le situazioni di sofferenza ed emarginazione che in questo lungo periodo abbiamo incontrato, e varie le realtà in cui ci siamo sentite chiamate a lavorare: il servizio in Caritas diocesana, l’accoglienza di donne vittime di sfruttamento sessuale, l’accoglienza di mamme con bambini con problemi di dipendenze, la pastorale nei campi rom e sinti, la pastorale con gli anziani soli ed ammalati, la pastorale famigliare e il servizio di consulenza a favore di coppie in difficoltà, l’insegnamento e il sostegno nelle scuole materne a favore di bambini con disagio, la pastorale carceraria e la pastorale giovanile per giovani e adolescenti alla ricerca di senso e riferimenti.

Come nasce il vostro carisma?

Il carisma delle Suore Francescane dei Poveri è quello di sanare le piaghe di Cristo Crocifisso specialmente nei poveri e nei bisognosi, attraverso l’amore e il servizio. La nostra famiglia religiosa nasce in Germania nel 1845 ad opera della Beata Francesca Schervier, la quale dedicò tutta la sua vita al servizio tra i poveri ed i malati. La nostra missione è ancora oggi quella di testimoniare l’amore di Dio attraverso la cura di ogni singolo individuo, specialmente i poveri ed i sofferenti, facendoci strumento di compassione e speranza all’interno del nostro mondo ferito.

Come si concretizza in diocesi la vostra missione incentrata sull’insegnamento della vostra fondatrice, la scelta radicale dei poveri?

Attualmente il nostro servizio in Diocesi di Pistoia si svolge presso due strutture, una per l’accoglienza di donne vittime di sfruttamento sessuale e con altri disagi, l’altra per l’accoglienza di mamme e bambini per donne che hanno avuto problemi di dipendenze. Ed inoltre siamo impegnate nella pastorale con i rom e i sinti, nella pastorale famigliare ed in quella giovanile, e nella visita a persone anziane ed ammalate della parrocchia di San Benedetto.

Il desiderio che da sempre ha animato la nostra fondatrice Francesca Schervier e che ancora oggi ci guida è quello di riconoscere la presenza di Gesù in ogni fratello e sorella che incontriamo. Sono loro, le persone speciali che Dio continua ad affidarci per condividere la loro vita, e attraverso percorsi a volte molto difficili ritrovare fiducia in sé stessi, recuperare stima e dignità, vivere un fallimento, una malattia, i sogni infranti, le aspettative deluse, la mancanza di speranza nel futuro a causa dei problemi economici. Provare ad essere voce di chi non ha voce, in una società in cui vince chi urla più forte o solo chi ha successo, perché ciascuno possa mostrarsi per ciò che veramente è, al di là dei pregiudizi e di ciò che dai mass media e dai social network viene sbandierato. Provare a farlo perché, anche i più poveri, hanno dei nomi, dei volti e delle storie, perché crediamo nella possibilità, al di là delle nostre differenze di essere fratelli e sorelle.

San Francesco e santa Chiara oggi sono ancora due figure capaci di attrarre l’attenzione dei giovani?

«Il carisma di Chiara e Francesco, parla anche alla nostra generazione, e ha un fascino soprattutto per i giovani» (Benedetto XVI, in occasione alla XXVII Giornata Mondiale della Gioventù)
I motivi per cui questi due santi possono attrarre ancora oggi i giovani crediamo siano vari. Ne citiamo due a noi molto cari: l’amore per l’autenticità e per le relazioni fraterne.
Chiara e Francesco erano giovani quando hanno iniziato a dare ascolto e voce a quello che desideravano veramente. Hanno trovato tra la confusione e il materialismo del tempo Qualcuno di credibile da seguire, un Dio incarnato nei lebbrosi, nei fratelli e nelle sorelle, fragile e libero…. Un Dio “inaspettatamente” vicino. Hanno saputo inseguire i loro sogni osando, rischiando di perdere affetti, sicurezze per essere davvero se stessi. Hanno imparato che il fratello e la sorella che Dio mette loro accanto sono il bene più prezioso che potessero avere. A volte scomodo, ma a volte un aiuto per imparare a farsi dono.
Crediamo che i giovani siano assetati di relazioni autentiche in cui scoprirsi amati così come sono senza la necessità di maschere o compromessi che soffocano i desideri più veri.

Qual è l’aspetto che più vi colpisce nel messaggio del Papa sulla Giornata Mondiale dei poveri?

Nel messaggio per la giornata mondiale dei poveri il Papa sottolinea l’intervento di Dio a favore dei poveri come un atto di cura che non solo risolleva dalla povertà ma restituisce dignità. Questo chinarsi di Dio verso l’uomo, curando in qualche modo le ferite della povertà e aiutando il povero a rialzarsi ci piace perché è un passaggio molto vicino al nostro carisma e alla nostra missione. Esso rappresenta lo sforzo quotidiano di chiunque nella Chiesa voglia impegnarsi a favore dei poveri, nell’ascoltare il loro grido e rispondere con un farsi “presenza” amorosa.
«La salvezza di Dio al povero è sempre un intervento di salvezza per curare le ferite dell’anima e del corpo, per restituire giustizia e per aiutare a riprendere la vita con dignità».

I poveri sono i primi abilitati a riconoscere la presenza di Dio e a dare testimonianza della sua vicinanza nella loro vita. In questa giornata si può cogliere anche un messaggio di speranza?

Certamente sì. Il messaggio del Papa ed il Salmo 34, da cui è tratto il titolo del messaggio per quest’anno («Questo povero grida ed il Signore lo ascolta») contiene in sé un chiaro messaggio di Speranza. Il salmista fa esperienza in prima persona di povertà, sa trasformarla però in un canto di lode e di ringraziamento al Signore perché spera con certezza e sperimenta sulla propria pelle che il suo grido è ascoltato dal Signore. Il Signore poi non si limita all’ascolto ma risponde a questo grido con la sua azione liberante, che è azione di guarigione. Il povero grida a Dio nella speranza di essere ascoltato ma anche con la certezza di essere liberato. La sua speranza è fondata sull’amore di Dio che non abbandona chi si affida a lui.

Daniela Raspollini




Un “piano Marshall” per i cristiani d’Iraq

Intervista ad Alessandro Monteduro, direttore di Aiuto alla chiesa che soffre – Italia.
Tra il 23 e 25 novembre sarà in diocesi un sacerdote iracheno per sensibilizzare i fedeli sulla situazione dei cristiani in medio oriente.

Sarà prossimamente a Pistoia, tra il 23 e il 25 novembre un sacerdote iracheno della piana di Ninive, tristemente famosa per i massacri e le distruzioni operate contro i cristiani dallo Stato Islamico. La sua presenza è coordinata da ACS (Aiuto alla Chiesa che soffre). Aiuto alla Chiesa che Soffre è una fondazione di diritto pontificio nata nel 1947 per sostenere la Chiesa in tutto il mondo, con particolare attenzione laddove è perseguitata. Abbiamo rivolto alcune domande ad Alessandro Monteduro, presidente ACS-Italia per conoscere meglio la situazione dei cristiani in Iraq e l’impegno di ACS.

Come si presenta la situazione dopo la distruzione dei villaggi cristiani di Ninive da parte dell’Isis?

La ricostruzione nella Piana di Ninive continua, e prosegue anche il “Piano Marshall” di Aiuto alla Chiesa che Soffre per sostenere i cristiani d’Iraq. Dall’8 maggio 2017, giorno dell’apertura dei primi cantieri nei villaggi di Bartella, Karamless e Qaraqosh, i risultati raggiunti sono straordinari. Secondo l’ultimo aggiornamento del 6 novembre scorso, i cristiani rientrati nell’intera Piana di Ninive sono 41.057. Le abitazioni private distrutte o danneggiate dai jihadisti in due anni sono state 14.035; le proprietà finora riparate sono state 5.746. A coordinare i lavori è il Comitato per la Ricostruzione di Ninive, istituito il 27 marzo 2017 dalle tre Chiese d’Iraq, caldea, siro-cattolica e siro-ortodossa, con la collaborazione di ACS. Dall’inizio dell’avanzata dell’ISIS nel giugno 2014, ACS ha sostenuto progetti emergenziali e umanitari in Iraq per un totale di quasi 40 milioni di euro. Ciò fa della Fondazione la prima organizzazione nella Piana di Ninive per entità di aiuti.

ACS offre un aiuto importante e concreto alla popolazione di quelle terre nella ricostruzione, ma resta anche il problema della sofferenza spirituale che ha lasciato la violenza dell’ISIS. La gente come affronta questa difficoltà?

La mission di ACS non è solo umanitaria, al contrario è squisitamente pastorale. Ogni nostro progetto ha lo scopo ultimo di agevolare l’evangelizzazione in territori in cui la persecuzione crea ostacoli apparentemente insormontabili. Da parte loro i cristiani di queste nazioni reagiscono con fortezza e fede. Ho visto molte croci sui containers nei quali erano ospitate le famiglie sfollate. Il loro esempio deve insegnare molto ad un’Europa che ha largamente abbandonato le proprie radici cristiane.

Papa Francesco esorta a favorire la permanenza di famiglie nella loro terra d’origine. Che speranza c’è a riguardo?

Il Papa come sempre è lungimirante. I corridoi umanitari, infatti, non rappresentano un’autentica soluzione. Sappiamo dai diretti interessati che i cristiani perseguitati non vogliono emigrare, al contrario vogliono restare in patria. Per questo motivo, gli unici corridoi umanitari che reputiamo necessari sono quelli “di ritorno”. ACS ha coerentemente avviato la ricostruzione di abitazioni e luoghi di culto anche in Siria. Dal 2011 all’agosto 2018 la Fondazione ha finanziato progetti a favore delle comunità cristiane siriane per un totale di 27.428.485 euro.

Quale sarà il futuro del cristianesimo in quelle terre?

Lo sa solo la Provvidenza. Certamente noi abbiamo il dovere di fare quanto è in nostro potere. Anzitutto è necessario pregare per le Cristianità di queste nazioni, in secondo luogo è opportuno continuare a diffondere informazione di qualità per sensibilizzare adeguatamente l’opinione pubblica, in terzo luogo è particolarmente utile sostenere, sulla base della personale disponibilità finanziaria, i progetti di aiuto ai fratelli sofferenti.

Ad oggi quali sono le opere concretamente realizzate da ACS?

Mi limito ai dati definitivi del 2017. Per quanto riguarda le aree di intervento, si confermano al primo posto i progetti di costruzione e ricostruzione (32,8% degli aiuti), con ben 1.212 tra cappelle, chiese, conventi, seminari e centri pastorali edificati o restaurati. Seguono gli aiuti umanitari e di emergenza (15,7%), una parte dell’impegno ACS che si amplia di anno in anno, e le intenzioni di Sante Messe (15,4%). Nel 2017 hanno beneficiato di questo particolare sostegno, fondamentale in aree povere in cui i sacerdoti non possono contare su nessun altra forma di sussistenza, 40.383 sacerdoti e religiosi, uno ogni 10 nel mondo, i quali hanno celebrato 1.504.105 Sante Messe secondo le intenzioni dei benefattori di ACS, ovvero una Santa Messa ogni 21 secondi. Importante anche il supporto alla formazione dei seminaristi: sono stati 13.643 quelli aiutati nel 2017, e quindi uno ogni 9 nel mondo. ACS ha inoltre provveduto al sostentamento di 12.801 religiose, ovvero una ogni 52 nel mondo, con un incremento di oltre il 15% rispetto al 2016.

Altri ambiti di interventi riguardano la traduzione e la pubblicazione di testi religiosi e l’apostolato mediatico, ovvero il sostegno a mezzi di comunicazione quali radio e tv cristiane, i corsi di formazione per laici, e l’acquisto di mezzi di trasporto per agevolare la pastorale di missionari e missionarie. Sono stati 1.120 i mezzi di trasporto donati nel 2017: 424 automobili, 257 motociclette, 429 biciclette, 4 camion, 3 pullman e 3 barche.

In questo quadro è stato estremamente rilevante il sostegno dei benefattori italiani. Nel 2017 ACS-Italia ha visto un incremento di circa il 9% della raccolta, che ha raggiunto quota 3.679.035 euro.  Un altro dato significativo è il rilevante aumento del numero dei benefattori italiani, dai 10.949 del 2016 ai 13.012 dello scorso anno. Molti dei progetti concretizzatisi grazie al contributo italiano sono stati realizzati in Iraq e in Siria. Tra le offerte a beneficio dei cristiani siriani ricordiamo in particolare la campagna di Natale 2017, per un totale di oltre 250.000 euro, e il progetto Goccia di latte, che con una raccolta di oltre 207.000 euro ha permesso di donare latte in polvere a tanti bambini cristiani di Aleppo.

Avete promosso un progetto di ricostruzione molto importante; si tratta di un’operazione eccezionale per i Cristiani in Iraq, ce ne può parlare?

Si tratta del più volte citato “Piano Marshall”, che noi abbiamo chiamato “Ritorno alle radici”. Dopo la sconfitta militare dell’ISIS i cristiani d’Iraq hanno espresso il desiderio di fare ritorno ai loro villaggi nella Piana di Ninive, ormai liberati. Senza un aiuto esterno, tuttavia, non sarebbero stati in grado di riparare le loro case, né le infrastrutture pubbliche. Il costo della ricostruzione delle sole abitazioni private è stato infatti stimato in 250 milioni di dollari; inoltre, nel mutevole quadro politico della Piana di Ninive, hanno avuto difficoltà a far valere il loro diritto al ritorno. Per scongiurare il rischio della scomparsa del Cristianesimo in Iraq, e riconoscendo il diritto al ritorno di ogni persona che si trova nella condizione di sfollato, le tre Chiese cristiane presenti nella Piana di Ninive (caldea, siro-cattolica e siro-ortodossa) hanno istituito, con il sostegno di Aiuto alla Chiesa che Soffre, il Comitato per la Ricostruzione di Ninive (Nineveh Reconstruction Committee – NRC) in modo da: promuovere e finanziare il ritorno dei cristiani ai rispettivi villaggi; pianificare e monitorare la riedificazione e rendere conto dell’utilizzo dei fondi ricevuti; informare l’opinione pubblica sullo stato di avanzamento del ritorno dei cristiani in Iraq; invitare tutti i governi e la comunità internazionale a intraprendere le necessarie azioni politiche al fine di assicurare a tali cristiani il rispetto del diritto a far ritorno alle proprie case.

ACS, impegnando parte della generosità dei propri benefattori, ha finanziato la ristrutturazione delle case mentre continuava ad offrire cibo e alloggio agli sfollati cristiani della Piana ancora in attesa di rientrare nei propri villaggi. Ho già fatto cenno alla situazione attuale con i dati aggiornati. Si tratta di un “cantiere aperto”, che testimonia la straordinaria generosità dei cattolici, anche dei fedeli italiani, i quali, al contrario da tanti stereotipi, sono concretamente solidali con i loro fratelli sofferenti in ogni parte del mondo.

Daniela Raspollini




Nasce a Pistoia l’Emporio della Solidarietà

Un’opera segno rivolta alla famiglia in difficoltà interamente finanziata dalla Fondazione Caript, in sinergia con Caritas Diocesana e Misericordia di Pistoia.

Un nuovo progetto di solidarietà, un’opera segno che prende vita a margine della “seconda giornata internazionale del povero” sabato 17 novembre: sarà il nuovo “Emporio della Solidarietà” con sede nella zona industriale di Sant’Agostino, nato da una sinergia di forze con in testa la Fondazione Caript, che ha finanziato l’intero progetto, la Fondazione S. Atto della Diocesi di Pistoia, la Caritas Diocesana di Pistoia e la Misericordia di Pistoia.

Si tratta di un vero e proprio market alimentare rivolto alle famiglie e persone che vivono in un temporaneo stato di difficoltà economica, che potranno ricevere gratuitamente i beni grazie ad una card punti.

«Questo nuovo servizio, che di fatto supera l’esperienza del “pacco alimentare”, garantirà una maggiore flessibilità ed efficienza nel sostegno alimentare di chi è in difficoltà – ha affermato Marcello Suppressa – direttore della Caritas di Pistoia -. Per questo progetto sarà importante la collaborazione con i Servizi Sociali, la rete delle Parrocchie e la stretta sinergia con le realtà Commerciali del nostro territorio per il recupero dei beni e eventuali donazioni, in un’ottica di recupero, lotta allo spreco e nuovi stili di vita».

«Una sfida vinta grazie alle sinergie che offre il nostro territorio» continua Sergio Fedi presidente della Misericordia di Pistoia. «Un territorio generoso fatto di persone, associazioni e aziende che con grande senso di responsabilità sociale sa realizzare progetti e risposte adeguate alle esigenze delle persone e soprattutto verso che si trova in difficoltà. Dopo il microcredito, il fondo solidarietà e salute l’emporio è l’ultima risposta in ordine di tempo».

Le persone che accederanno al servizio saranno inserite in questo progetto dai centri d’ascolto Caritas, che valuteranno le necessità e progetteranno percorsi personalizzati di accompagnamento. Il progetto prevede che l’emporio sia un vero e proprio centro aperto alla città per la sensibilizzazione a stili di vita coerenti col messaggio evangelico. All’interno delle sale avranno luogo corsi di formazione specifici alla gestione dell’economia familiare, orientamento al lavoro e laboratori alimentari, con la collaborazione di varie associazioni e volontari vicini alla Caritas.

Il nuovo emporio della solidarietà si trova in zona Sant’Agostino, in via Galileo Ferraris 7. L’inaugurazione avrà luogo sabato 17 novembre alle ore 10.30. Dopo il saluto dei promotori il vescovo Mons. Fausto Tardelli porterà la sua benedizione dei locali.




Una novità dalla storia secolare: la festa del Seminario diocesano

Sabato 10 novembre la comunità del Seminario ha celebrato insieme a numerosi sacerdoti della Diocesi un momento di fraternità e condivisione.

Sabato 10 novembre, nella memoria liturgica di San Leone Magno, il Seminario diocesano ha celebrato la sua festa. Una festa che non c’era, ma che si riannoda alla storia ormai plurisecolare di questa istituzione. Il riferimento a San Leone Magno si spiega, molto prosaicamente, con il nome del vescovo che diede vita al seminario.

I seminari così come li conosciamo o immaginiamo, fatti di grandi strutture con alunni in talare, disciplinati e separati dalla vita del secolo, più o meno attentamente e rigidamente formati nelle discipline teologiche e nella retta devozione, sono un’invenzione del Concilio di Trento. Per l’esattezza nel canone XVIII della ventitresima sessione del Concilio (15 luglio 1563), dove si segna il passaggio dalle antiche scuole cattedrali e dalla pluriforme e discontinua offerta formativa precedente ad una struttura più direttamente controllata dai vescovi. L’applicazione del decreto, tuttavia, chiederà parecchio tempo per essere universalmente applicata; anche a Pistoia, infatti, occorrerà attendere più di un secolo, fino al 1693, prima di arrivare all’istituzione del Seminario. Il merito spetta al vescovo Leone Strozzi, un monaco vallombrosano che resse la diocesi per circa un decennio (1690-1700) e che fu poi nominato arcivescovo di Firenze (1700-1703). Di lui, per chi volesse rendere omaggio, resta un bel monumento funebre in Cattedrale, collocato subito prima della porta di accesso alla sagrestia.

In un primo momento il Seminario Leoniano trovò posto presso gli edifici annessi alla chiesa di San Vitale, ma fu presto trasferito (1703) in una sede più adeguata e monumentale, cioè nel palazzo presso la piazzetta dello Spirito Santo, oggi piazza S. Leone, che tutti conosciamo come sede della Provincia. La permanenza del Seminario, cui si deva il mutamento nella titolazione dell’attuale chiesa di San Leone, già sede della Congregazione dei preti dello Spirito Santo, non arrivò al termine del secolo, poiché l’episcopato di Scipione de’ Ricci portò novità decisive. Il vescovo de’ Ricci, entro un quadro generale di riforma della diocesi, organizzò il seminario al centro di un nuovo complesso di fabbriche che comprendeva il nuovo palazzo episcopale, la trasformazione e il collegamento dei monasteri di Santa Chiara e di San Benedetto. È il seminario che conosciamo ancora oggi, pur frammentato e internamento frazionato e riadattato. Nel corso degli anni le strutture del monastero olivetano di San Benedetto furono riservate per il seminario minore, mentre il nuovo corpo di fabbrica che recuperava parzialmente il monastero delle clarisse di Santa Chiara ospitava il seminario maggiore. Una ripartizione mantenuta fino agli anni settanta del Novecento, quando per la diffusione della scuola pubblica e il mutato clima culturale del postconcilio, fu chiuso il seminario minore. Negli anni sessanta fu ammodernato l’interno con la ristrutturazione degli ambienti, nuovi bagni, un impianto di riscaldamento e la costruzione di una nuova ala destinata ai professori dello studio teologico interno che oggi ospita i sacerdoti anziani.

I seminaristi hanno lasciato il Seminario costruito dal Ricci soltanto in anni recenti, dal 1992 al 2002, quando furono ospitati a Lucciano, presso Quarrata, nelle vecchie scuole delle suore minime. Per scarsità di alunni i seminaristi furono poi trasferiti presso il Seminario interdiocesano di Firenze. Il Seminario è tornato in diocesi per un breve periodo tra 2015 e 2017, ospitato nella canonica della parrocchia di Santa Maria Assunta a Quarrata. Dall’ottobre 2017 i seminaristi hanno fatto ritorno a Firenze, ma sono presenti in Diocesi presso il Seminario vescovile di via Puccini dal pomeriggio del venerdì fino al pomeriggio della domenica per incontri di formazione, preghiera e condivisione.

Nel Seminario Interdiocesano di Firenze – segno di un evidente e generalizzato calo delle vocazioni – sono accolti anche seminaristi di molte altre diocesi toscane: Firenze, San Miniato, Siena, Grossetto, Montepulciano-Chiusi-Pienza, Pitigliano-Sovana-Orbetello. Attualmente la comunità del Seminario di Pistoia ha sei alunni.

La festa del Seminario diocesano ha inteso proporre un momento di fraternità presbiterale e di conoscenza degli alunni in linea con quanto suggerisce anche la ratio fundamentalis “il dono della vocazione presbiterale” (2016) che è il testo guida per tutta la Chiesa circa la formazione dei futuri sacerdoti; in particolare là dove si dice che: «il clero della Chiesa particolare sia in comunione e in sintonia profonda con il vescovo diocesano, condividendone la sollecitudine per la formazione dei candidati, attraverso la preghiera, l’affetto sincero, il sostegno e le visite al Seminario. Ogni presbitero deve essere consapevole della propria responsabilità formativa nei riguardi dei seminaristi» (n. 129). La festa è stata anche l’occasione di vivere un momento di condivisione con i sacerdoti più anziani che abitano in seminario.

Oggi il seminario di Pistoia continua a testimoniare, entro la discontinuità tipica degli ultimi decenni, una certa vivacità vocazionale. Il Signore non si stanca di chiamare operai nella sua messe. Forse è cambiata l’età media dei seminaristi, non più giovanissimi al momento del loro ingresso; forse i percorsi vocazionali non si innestano tutti in parrocchia o nell’Azione Cattolica; certamente le fragilità e la mentalità dei seminaristi di oggi sono quelle proprie dei giovani di oggi, eppure il Signore non si stanca di chiamare. Anzi, oggi più ieri forse, i giovani avvertono l’esigenza di risposte grandi, assolute – perfino radicali -, che diano sostanza alla propria identità, di proposte davvero spirituali, attrattive perché alternative alla mondanità. La festa del seminario è un segno incoraggiante della vivacità della Chiesa, pur nel lungo e talora drammatico corso della sua storia.

Il Rettore




La resurrezione di Gesù tra storia e fede

Un’introduzione del prof. Giovanni Ibba al tema degli incontri per il quarto anno della scuola di Formazione teologica diocesana.

È iniziato il quarto anno della scuola di formazione teologica sul tema “Al centro del mistero della fede: annunziamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua resurrezione, nell’attesa della tua venuta”.
Il corso di quest’anno si concentra su questo annunzio, affrontando tematiche come la morte e la resurrezione di Cristo. Il prof. Giovanni Ibba, teologo e biblista, terrà due lezioni sul tema della morte e resurrezione di Gesù; la prima il 26 novembre dal titolo: «la risurrezione di Gesù Cristo: aspetti storici». A lui abbiamo rivolto alcune domande per affrontare un tema decisivo per la nostra fede e stimolare la partecipazione agli incontri del quatro anno 2018.

Per quanto riguarda il racconto della resurrezione quali fonti storiche o testimonianze scritte conosciamo a parte il Nuovo Testamento?

Specificamente riguardo alla risurrezione di Gesù abbiamo a disposizione anche altre fonti, anche se poche, oltre a quelle neotestamentarie. Sono fonti più tardive rispetto ai testi neotestamentari. Comunque, la più antica fra queste è probabilmente quella contenuta nell’opera di Flavio Giuseppe, Antichità Giudaiche, dove si legge che i discepoli dichiaravano che Gesù era apparso loro tre giorni dopo la sua morte.

Tutte le fonti neo testamentarie raccontano ciò che è accaduto dopo la resurrezione …possiamo affermare che la resurrezione è un fatto storico?

Se leggo Tito Livio è chiaro che storicamente posso affermare che al suo tempo la fondazione di Roma era davvero creduta come viene narrata nella sua opera e che Romolo e Remo sono stati allattati dalla lupa, ma, con “giudizio storico”, dirò che si tratta di un mito, di un mito storicamente attestato. La risurrezione è un mito? Nessuno, fra gli storici lo ha mai trattato così. Semmai, nell’Illuminismo e oltre, come di una “invenzione” da parte degli apostoli dopo la morte di Gesù. Ma è una teoria che “storicamente” non regge molto, tanto che di fatto è stata abbandonata. Forse anche perché banale.

Ciò nonostante, non accettare storicamente la resurrezione di Gesù e dire che è un’invenzione, oppure dire che non posso dimostrare che davvero sia accaduta, se da una parte può mostrare anche un problema ideologico, dall’altra apre tutta una serie di riflessioni molto importanti.

Se io come storico voglio capire il successo del cristianesimo senza basarmi sul dato della risurrezione di Gesù, allora qual è l’elemento che ha fatto in modo che si formasse ed espandesse questa religione?

Per la fede cristiana il dato della resurrezione è fondamentale, ma per lo storico essa non può essere considerata come un fatto. Nemmeno per il cristiano che fa lo storico, per una questione di metodo, se così mi posso esprimere. Qualcuno ha però fatto notare che senza di essa non sarebbe potuta avvenire una tale espansione del cristianesimo. Un terremoto avvenuto nel passato lo possiamo appurare studiando le fratture nelle rocce. Non posso sentire il terremoto avvenuto nel passato, posso però studiarne le tracce. Ma è chiaro che una simile ipotesi di lavoro ha bisogno, per essere plausibile, di sapere esattamente cos’è un terremoto e, in questo caso, cos’è una risurrezione. A parte la testimonianza degli apostoli, che potrebbe essere “inventata”, oltre a quello che riporta Giuseppe Flavio e altre fonti romane (per inciso su Gesù più che sulla sua risurrezione), non abbiamo a disposizione altro.

Per spiegare la nascita e lo sviluppo del cristianesimo molti studiosi hanno allora lavorato sulla storia delle idee, cioè hanno cercato di vedere se c’è un’evoluzione di idee religiose precedenti a Gesù che poi si sarebbero sviluppate in una credenza e in una dottrina. Ma anche questo tipo di ricerca non ha dato risposte convincenti, a parte una: Gesù non ha predicano nulla di veramente diverso rispetto a quello che già era espresso da altre fonti giudaiche della sua epoca. L’eucarestia probabilmente è la vera novità nella storia delle idee (il fare qualcosa e il predicare qualcosa sono azioni assolutamente interscambiabili nel vangelo).

Si potrebbe vedere la risurrezione di Gesù come una metafora della prima comunità cristiana? Gli Atti degli Apostoli sono quasi un quinto vangelo: Pietro, Giacomo, Stefano e Paolo dicono e fanno cose perfettamente simili a quelle che ha detto e fatto Gesù. Gesù è risorto perché vive negli apostoli e nei loro seguaci. Ma affermare semplicemente questo significherebbe comunque forzare le fonti neotestamentarie, le quali si esprimono chiaramente sulla risurrezione. Soprattutto parlano della testimonianza degli apostoli riguardo alla risurrezione di Gesù, anche se ciò che hanno visto può verificarsi in altro modo all’interno della comunità.

Pertanto, parlando in modo rigoroso, possiamo dire che storicamente è attestato il racconto della risurrezione di Gesù come anche la testimonianza degli apostoli, ma non che la risurrezione sia un dato “storico” in senso stretto. Il dato della fede, la risurrezione di Gesù, si basa quindi sul credere a ciò che viene scritto nei vangeli e dalla predicazione degli apostoli.

Nei vangeli la questione della resurrezione è trattata in maniera differente in ogni testo. Perchè?

Per quale motivo questi racconti presentano differenze non è del tutto chiaro. Diciamo che ci sono teorie plausibili, e che queste teorie partono dalla considerazione che dietro a ciascun vangelo c’è una comunità che vive e interpreta la resurrezione di Gesù con sentimenti diversi.

In ogni caso, tutti e quattro i vangeli riportano la notizia del ritrovamento della tomba vuota, come anche che la prima testimonianza di questa è data da donne.

Se ci sono quattro racconti con differenze sulla resurrezione non significa che allora i dati riportati in questi testi hanno parti inventate, ma solo che lo stesso evento è visto con sensibilità diverse. Come affermerà Ireneo di Lione rispetto ai vangelo, ossia che è uno e quadriforme, così in questo senso si può dire del racconto della resurrezione.

La resurrezione è un atto divino che tocca il mondo intero…un aspetto che forse talvolta dimentichiamo..

Mi pare che dimentichiamo molte cose, non solo la risurrezione. Sono convinto che conosciamo quello che proviamo, e quello che proviamo non lo scordiamo, o per lo meno è molto difficile che accada. Abbiamo probabilmente dimenticato un elemento della fede cristiana perché forse trasmesso in modo astratto, non vissuto. Forse sarebbe bene interrogarsi sul significato della risurrezione nella vita e, in qualche modo, viverla. Come si legge negli Atti degli Apostoli o in Paolo. Essere, in sostanza, come dei risorti.

Daniela Raspollini

(I corsi del IV anno si svolgono il lunedì dalle ore 20.45 alle ore 22.15)

Programma del quarto anno 2018-2019 (pdf)

 




Friends of Florence per il pulpito di Giovanni Pisano

Il pulpito della Chiesa di Sant’Andrea sarà oggetto di un progetto di studio in vista del restauro.

«Qui fede cristiana e arte si sposano in modo mirabile. Questo pergamo è una lezione di vita cristiana, una esposizione straordinaria della salvezza dell’uomo». Così il vescovo Tardelli alla presentazione del progetto di diagnostica e restauro del pulpito di Giovanni Pisano di Sant’Andrea a Pistoia.

«Voglio esprimere la mia completa soddisfazione – ha affermato il vescovo – per essere arrivati a questo punto e ringrazio Friends of Florence perché per questo finanziamento inizia un’opera davvero importante per la città».

I dissesti e i problemi di conservazione che si sono manifestati e si sono accentuati negli ultimi tempi nel pulpito, infatti, impongono con urgenza di studiarne le condizioni di stabilità con rilievi, analisi e indagini che consentiranno di definire le forme più opportune di intervento e di restauro.

Con la Diocesi di Pistoia e la Parrocchia di Sant’Andrea è stato quindi sottoscritto un protocollo d’intesa in base al quale la Fondazione Friends of Florence finanzia il progetto con un importo complessivo di € 230.000,00.

Nei giorni scorsi è stato inoltre sottoscritto un contratto di ricerca tra Soprintendenza, Fondazione e Università degli Studi di Firenze (Dipartimento di Scienze della Terra e Dipartimento di Ingegneria Civile e Ambientale) per la realizzazione delle attività di studio, indagine e analisi strutturale.

La presidente di Friends of Florence, Simonetta Brandolini d’Adda, ha ricordato con soddisfazione il contributo della sua fondazione: «il pulpito di Giovanni Pisano – ha ricordato – è un’opera che riempie il cuore di spiritualità e bellezza».

Il Pulpito di Giovanni Pisano – prosegue la Presidente – è stato uno dei primi grandi passi nella scultura verso il Rinascimento ed è stato apprezzato e studiato poi per secoli dai grandi artisti come un modello di ispirazione stilistica. Lo studio approfondito e il restauro hanno un’importanza vitale per conservare questo magnifico capolavoro e offrire alle future generazioni la stessa opportunità che oggi abbiamo noi di poterlo vedere, studiare e fruire secondo i valori che la cultura occidentale ci insegna attraverso l’arte».

Il soprintendente Andrea Pessina ha segnalato la generosità di Friends of Florence, e la pronta disponibilità dalla presidente Simonetta Brandolini D’Adda. Oggi presentiamo, ha ricordato il soprintendente «un progetto di studio più che di restauro. Prima di mettere la mano sul monumento abbiamo convenuto sulla necessità di acquisire indicazioni sulle ragioni del dissesto del pulpito». Un intervento che prevede, tra l’altro, la scannerizzazione completa del pulpito, la ricostruzione di rilievi 3D, la simulazione di modelli per comprendere la storia e la statica del monumento.

Le condizioni del pulpito hanno recentemente richiesto, tra l’altro, un intervento d’urgenza per il restauro di una delle figure di Sibille, prontamente eseguito da Alberto Casciani per conto della Soprintendenza e documentato in un video.

IL FUTURO DEL PULPITO DI GIOVANNI PISANO

Il restauro della Sibilla del Pulpito di Giovanni Pisano in Sant'Andrea curato da Alberto Casciani. Un filmato, curato dalla Soprintendenza che descrive l'intervento, in attesa dello studio e monitoraggio dell'intero pulpito finanziato dalla fondazione Friends of Florence e presentato questa mattina nella chiesa di @parrocchia di Sant'Andrea a Pistoia

Publiée par Diocesi di Pistoia sur Mercredi 7 novembre 2018

«Un monumento così importante – afferma mons. Tardelli, vescovo di Pistoia – ha bisogno di continua attenzione e di premurosa salvaguardia. Per questo sono davvero felice che una realtà come Friends of Florence, si sia interessata ad esso e abbia, con grande sensibilità, deciso di impegnarsi in modo davvero considerevole al suo restauro».




Dalla gloria dei santi alla speranza cristiana: omelia del vescovo Tardelli

Tutti i santi 1 novembre 2018

(Camposanto della Misericordia Pistoia)

Il primo e il due di novembre sono giorni particolari. Dedicati al ricordo di chi non è più visibilmente tra noi, sono giorni che mescolano insieme lacrime e speranza, dolore e consolazione. In ogni caso non ci lasciano indifferenti. Sono giorni che ci mettono infatti davanti il mistero della morte. E, hai voglia di esorcizzare questa realtà con la baldoria di ieri sera e di stanotte. La morte incombe sempre sulla nostra vita come una minaccia. Hai voglia di sfidarla, come l’uomo da sempre ha cercato di fare. Essa rimane davanti a noi come un enigma senza risposta. Possiamo provare a non pensarci; possiamo cercare di distrarci, ma non c’è niente da fare: la scomparsa dei nostri cari, le tragedie del mondo, i nostri stessi malanni, gli anni che avanzano; tutto ci riporta lì, di fronte a quella porta chiusa, oltre la quale nessuno di noi sa esattamente che cosa ci sia; nessuno di noi infatti ha visto e sentito cosa c’è aldilà. Della morte e dell’aldilà noi non ne abbiamo esperienza. Non sappiamo cosa sia. La morte è altro da noi. Un qualcos’altro che possiamo constatare intorno a noi ma di cui non possiamo fare esperienza diretta e narrabile. Non è pessimismo questo: è invece guardare in faccia la realtà.

Una cosa però la sappiamo bene, la sentiamo, la proviamo fin nelle fibre più profonde dell’anima: noi vogliamo vivere; non vogliamo morire. La morte contraddice quella sete di vita che portiamo dentro e che vediamo per es. esprimersi con forza nella lotta di ogni bambino per venire al mondo. La morte non fa per noi. La sentiamo come una nemica che ci ghermisce, ci travolge, rovina i nostri sogni e le nostre attese. Che ci porta via gli amici più cari, ci strappa via i nostri genitori, a volte la sposa o lo sposo, altre volte i figli. E ci fa sentire sempre più soli. Piano piano si fa il vuoto intorno a noi. E quanta nostalgia porta con sé il ricordo dei giorni passati, dei volti che abbiamo incontrato ed amato, coi quali anche abbiamo discusso e coi quali magari ci siamo arrabbiati.

Quanta nostalgia al pensiero che ormai tutto è passato e gli anni sono volati troppo in fretta, senza che ci abbiano lasciato il tempo per gustare la vicinanza dei nostri cari. Quante cose avremmo ancora voluto dire loro; quanto ancora avremmo voluto ascoltare dalla loro bocca; quante le cose rimaste in sospeso e ormai irrecuperabili; ormai irrimediabilmente passate! No.

La morte non fa davvero per noi; non la vogliamo; non ci piace, non è nostra amica. E se per qualcuno essa è apparsa tale alla sua disperazione; oppure come sollievo al suo insopportabile dolore, è solo per una situazione di estremo disagio e solitudine, che per circostanze a volte imponderabili uno si trova a vivere. Se trovasse consolazione e potesse placare il suo dolore nella cura della medicina e nella vicinanza affettuosa degli altri, credo che nessuno si darebbe la morte. Così dunque, davanti alla morte proviamo tutti un senso più o meno forte di angoscia. A noi che viviamo questa angoscia, l’odierna festa di ognissanti non fa discorsi ma ci mette davanti un mondo di viventi, che hanno vinto la morte; un modo di gioia e beatitudine. Fatto di uomini e di donne, tra i quali speriamo con tutto il cuore ci siano anche i nostri cari, che cantano e sono felici, dopo aver faticato lungamente nella vita terrena. E’ la schiera innumerevole dei santi e delle sante. E’ la visione dischiusa dal libro dell’Apocalisse che abbiamo ascoltato: Ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce: «La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello».

Ci sono i martiri che hanno perso la vita per Cristo, ma ora vivono nella gloria; ci sono i santi monaci e monache; ci sono padri e madri di famiglia, giovani e vecchi, di ogni, lingua, popolo e cultura. Sono nella gloria, ci dice la liturgia della festa di oggi. E di molti noi conosciamo la loro intercessione per noi, a partire da Maria SS.ma che per singolare privilegio non ha conosciuto la corruzione del sepolcro ma è stata assunta in cielo in corpo e anima.

E poi pensiamo solo ad alcuni altri, grandissimi, straordinari, come San Francesco, Sant’Antonio, San Padre Pio; pensiamo ai santi apostoli che noi pistoiesi particolarmente veneriamo: San Jacopo, San Bartolomeo, Sant’Andrea, San Giovanni; i nostri santi vescovi Sant’Atto, il Beato Franchi; le nostre sante donne come la beata Caiani.

E poi pensiamo ai Papi santi del nostro tempo che abbiamo conosciuto e incontrato: San Giovanni XXIII°, San Paolo VI, San Giovanni Paolo II; oppure ancora giovani luminosi come la beta Chiara Badano e ancora una infinità di altri nostri fratelli maggiori che ci amano e ci vogliono felici.

Pensando a loro e sentendoli qui accanto a noi, nella comunione dei santi, ci rincuoriamo e ci solleviamo dalla nostra angoscia.

Il pensiero che anche i nostri amici e i nostri familiari possano essere partecipi della gloria dei santi, ci apre il cuore alla gioia che esprimiamo con quei fiori che deponiamo sulla tomba dei nostri defunti ma che ancor più possiamo esprimere facendo opere di bene, anzi, sforzandoci di essere uomini e donne delle beatitudini, come ci ha ricordato il Vangelo. Beati i poveri in spirito, beati quelli che sono nel pianto, beati i miti, beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, beati i misericordiosi, beati i puri di cuore, beati gli operatori di pace, beati i perseguitati per la giustizia. La strada delle beatitudini è la strada di Cristo. Una strada che si può percorrere, anche se con tanti tentennamenti e tante battute d’arresto. E’ la strada che hanno percorso i santi e che è proposta anche a noi. Chi segue questa strada, passa già ora dalla morte alla vita e la morte non può più bloccarlo nella paura. Chi ascolta la parola di Dio e si sforza di metterla in pratica; chi pratica l’accoglienza dell’altro che è nel bisogno e apre il suo cuore a Dio e ai fratelli, ha compreso la lezione che viene dai nostri fratelli defunti, santi o ancora bisognosi di purificazione. Così, nonostante tutto, potremo arrivare persino a chiamare la morte, come ha fatto San Francesco, nostra sorella, per la quale benedire il Signore.




La Beata Maria Margherita Caiani: un viaggio sulle “ali dello Spirito”

Sabato 3 novembre la Diocesi celebra la memoria liturgica della Beata Maria Margherita Caiani

Per la festa di Madre Caiani sarà aperta tutto il giorno la cappella di fondazione dell’Istituto delle Minime di Poggio a Caiano. Alle ore 17 si terrà la preghiera dei vespri, quindi alle 17.30 la celebrazione eucaristica presieduta da Padre Michele Pini, parroco di Chiusi della Verna, nella chiesa parrocchiale di Poggio a Caiano.

Dobbiamo ringraziare il nostro vescovo Fausto per la felice intuizione che troviamo leggendo le indicazioni operative e attuative della sua lettera pastorale, dove, fra le varie cose, sottolinea l’esigenza di “riscoprire, ricordare e celebrare” nel nostro cammino comunitario la presenza dei Santi diocesani: uomini e donne che nella loro vita hanno davvero volato con le Ali dello Spirito parafrasando, appunto, l’immagine coniata dal vescovo Fausto e che è stata il filo rosso che ha caratterizzato la riflessione di questo triennio. Papa Francesco, al paragrafo 34 di «Gaudete et exsultate», con la sua splendida capacità di sintesi, spiega così la santità: «non avere paura di puntare più in alto, di lasciarti amare e liberare da Dio. Non avere paura di lasciarti guidare dallo Spirito Santo. La santità non ti rende meno umano, perché è l’incontro della tua debolezza con la forza della grazia».Veramente è tutto qui! Santo è colui che è cosciente della propria fragilità e della propria pochezza e nello stesso tempo è colui che proprio per questo ha la capacità di vedere ed accogliere indegnamente la grazia di Dio: da questa unione lo Spirito crea cattedrali umane enormi.
Questa definizione di papa Francesco, questa vivace pennellata, rappresenta più di tanti discorsi il ritratto della Beata Maria Margherita Caiani (1863-1921), fondatrice delle Suore Francescane Minime del Sacro Cuore e beatificata il 23 aprile del 1989 da San Giovanni Paolo II.

Margherita Caiani, al secolo Marianna, nata il 2 novembre del 1863 a Poggio a Caiano, viene battezzata il giorno dopo a Bonistallo. Rimasta orfana molto giovane, avendo nel suo cuore il desiderio di consacrarsi totalmente a Dio inizia a domandarsi insistentemente cosa il Signore volesse da lei, quale la strada da seguire per servirlo. Intanto insieme ad altre ragazze inizia un apostolato fra le vie e le case del paese assistendone i malati e i sofferenti e fondando una piccola scuola itinerante per i bambini. La contemplazione del Sacro Cuore di Gesù, sarà sempre il caposaldo del suo agire: quel Cuore sofferente che lei rivedeva e serviva nei volti della gente del suo paese con quell’umiltà che la portava a dire: «debbo essere morta pur vivendo: morta a me stessa, viva per aiutare gli altri a vivere».
Il suo sarà un cammino di discernimento molto lungo seguito da alti e bassi, sarà un continuo interpretare, aiutata da una solida rete di amicizie, il volere di Dio su di lei, fino ad arrivare al 15 dicembre 1902, anno della vestizione religiosa insieme alle prime compagne e di fondazione dell’Istituto delle Minime Suore del Sacro Cuore. Nel 1910 viene fondata la prima casa filiale a Lastra a Signa e da lì seguiranno numerose altre fondazioni, con il carisma delle Minime che si diffondeva anche fuori dalla Toscana fino a Milano.

Ma importante è capire il carisma di Madre Caiani, e lo possiamo ascoltare direttamente dalle sue parole, parole semplici, quasi un programma per applicare il Vangelo nella quotidianità:

«Io giungo tra gli uomini della terra ma prima devo ascendere al cielo e passando per Iddio, Somma carità, devo avere gli uomini. La corrente del mio amore per gli uomini, miei fratelli, passa solo attraverso il cuore di Dio, per avere gli uomini io devo avere prima di tutto Iddio».

In Madre Caiani vediamo davvero ciò di cui c’è bisogno come non mai nella Chiesa di oggi e nelle nostre comunità: quell’equilibrio fondamentale e maturo fra preghiera e azione, fra il Cristo servito e amato nella carne dei più piccoli e il Cristo contemplato nella preghiera, e per lei in particolare nell’adorazione eucaristica. La corrente verso gli altri, lei dice, è possibile solo partendo dal Cuore di Dio, solo guardando un Cuore ricco di Misericordia, siamo capaci di donare Misericordia. Spesso amiamo poco perché anche preghiamo poco, e quando amiamo poco ci troviamo tristi, avidi, nevrotici.
La Madre insegna che ogni azione deve sempre partire da quel Cuore, dalla contemplazione di quel Cuore: spesso nelle nostre comunità parrocchiali ci perdiamo nelle maglie del tecnicismo, saltiamo questo passaggio di amore e contemplazione che è il primo passo: è come costruire una casa partendo dal tetto e non dalle fondamenta. Quando si tratta di stare in preghiera davanti a Gesù, quando si tratta di trovare tempo per Lui siamo i campioni del “non ho tempo”, dobbiamo imparare a liberare del tempo per quello che è fondamentale, per la “parte migliore” come spiega Gesù a Marta, quella parte migliore che ci dà la forza e la spinta per essere ferventi nella carità.

La Madre ritorna alla casa del Padre l’8 agosto del 1921, gli ultimi anni di vita saranno logorati da un terribile male che la privava di ogni forza, ma nonostante tutto saranno anni di grande impegno per una Congregazione che sempre più aumentava di numero: alla sua morte lascia 13 case filiali e 124 religiose.

«Cosa può volere da me il Signore? Non sono che una povera venditrice di sigari».

È la domanda che spesso Marianna si faceva nella sua ricerca vocazionale, una domanda intrisa di quella consapevolezza di «debolezza», che sottolineava prima Papa Francesco; da una donna che cercava il meglio nella sua vita, che aveva capito che la libertà non è altro che affidarsi ed essere strumento di Dio è nata una comunità religiosa capace di dare un volto ed influenzare nella fede un paese intero. Dalla domanda di una semplice ragazza il Signore ha potuto costruire una piccola fraternità capace anche di essere missionaria, prima nel proprio paese e col tempo nel mondo intero.
La vicenda di Madre Caiani ci dice che per diventare “comunità fraterna e missionaria” dobbiamo iniziare a farci ognuno di noi, intimamente la domanda: «cosa può volere da me il Signore?». Quando insieme, nelle nostre interminabili riunioni, siamo capaci, ognuno di noi, nella verità e nella semplicità, di farci questa domanda scomoda nasce la comunità, la fraternità. «Cosa può volere da me il Signore?»; non c’è stato svincolo della vita in cui la Madre non se lo sia chiesto.

A chi chiedeva a Gesù quasi un “certificato di qualità” su quali fossero le vere opere di Dio, Gesù rispondeva: «dai loro frutti li riconoscerete» (Mt 7,20). Ancora oggi le Minime, e tanti laici insieme a loro, in Italia e nel mondo portano avanti le opere di Margherita Caiani, attualizzandole, rinnovandole in una sfida sempre nuova con la modernità e la sua brama di autosufficienza che continuamente rifiuta l’offerta di un Dio morto per amore.

Simone Panci




Che cos’è l’accoglienza? Una riflessione a partire dalle parole del vescovo

Ci sono molti spunti di riflessione, almeno per coloro che siano riusciti a conservare calma e ragionevolezza, nelle parole che il vescovo di Pistoia ha rivolto alla Chiesa e alla città nel suo recente comunicato. Parole che rappresentano certo un contributo utile alla comprensione di quanto sia accaduto nel tempo recente.

Uno dei richiami sui quali il comunicato di mons. Fausto si incentra riguarda il valore dell’accoglienza. La domanda che in tutta questa vicenda realmente rintocca, sottotraccia, profonda e sorda, è infatti proprio questa: che cos’è davvero l’accoglienza? Cosa significa veramente accogliere? È questo il punto vero di quanto accaduto, finora affrontato solo dalle parole del vescovo, sul quale appare necessario riflettere. Si tratta di una domanda e di una questione che travalicano gli spiccioli fatti di cronaca più o meno gradevoli.

In questo senso non è possibile non cogliere nelle parole del vescovo il tentativo di strappare alle logiche della cronaca gli accadimenti e gli episodi, per loro stessa natura sempre effimeri e passeggeri, e ricondurre il tutto agli orizzonti di senso, ai significati primi e ultimi dove il rumore della cronaca non può riuscire ad arrivare. Non si tratta, infatti, o non si tratta più di una semplice vicenda parrocchiale. Quello che ormai è in discussione è uno dei valori di riferimento di chi cerca di seguire il Signore. Che cos’è l’accoglienza? Come, e perché, e quando, e in nome di chi praticarla?

Lezioni splendide e senza tempo si potrebbero ritrovare, a questo riguardo, nelle pagine di profeti del nostro passato. Ne cito uno tra tutti: don Tonino Bello. L’accoglienza si rintraccia certamente nelle scelte pastorali che una comunità parrocchiale o una diocesi operano. E a questo proposito occorre dire che sarebbe (stato) bello poter vedere che molte parrocchie si adoperano in questa direzione, mentre si deve purtroppo annotare che i molteplici appelli di mons. Tardelli in tal senso, invece, sono stati scarsamente o frettolosamente ascoltati. Ma ancora di più l’accoglienza si rintraccia in uno stile pastorale, in un atteggiamento interiore davanti ad ogni vicenda. Di essa ci sono chiarissimi e inequivocabili segnali rivelatori che ne evidenziano la presenza (o l’assenza) e che, a volte istintivamente, le persone sanno riconoscere senza errore.

L’accoglienza cristiana quindi è veramente tale quando diventa stile di vita ancora più e ancora prima che scelta organizzativa. Quali siano questi segnali non è semplicissimo da dire, ma alcuni possono essere individuati. Certamente il rispetto dell’altro qualunque siano la sua provenienza o il colore della pelle o l’età o le convinzioni politiche. Certamente il rifiuto dello scontro, a partire proprio da coloro che la pensano diversamente.

L’accoglienza, quando è atteggiamento interiore – e quindi stile di vita, e solo allora scelta operativa – non ha nemici, non sente persecutori, non interrompe il dialogo con alcuno. Vede, apprezza, dà valore alle ragioni dell’altro; fa sue le esigenze di tutti, quelle fisiche, quelle morali, quelle pastorali; si adopera perché chiunque si possa sentire preso in cura.

In un certo senso noi cristiani ne abbiamo un alto modello perché l’accoglienza, se è vera, è il frutto di quell’amore all’altro che «tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta». Viceversa, se anche dessi tutti i miei beni ai poveri e perfino consegnassi il mio corpo alle fiamme, non sono nulla di più di un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna.

Un programma altissimo che coglie tutti in difetto, a partire dal sottoscritto, e di fronte al quale l’unico atteggiamento possibile è un’umiltà silenziosa e raccolta.

C’è una domanda nel comunicato che il vescovo Fausto ha rivolto che rintocca e fa riflettere. Come possiamo far crescere tra di noi, nelle nostre comunità, nella nostra città il senso di una fraternità accogliente? Di fronte a quali percorsi, a quali vicende, a quali testimonianze il cuore si allarga, lo spirito cresce, le coscienze maturano? Cosa può ancora essere capace di renderci persone migliori?

Difficile da dire. Di sicuro nulla e nessuno che scelgano di consegnarsi alle alterne sorti della cronaca e alle logiche mediatiche possono farlo. Bauman ha detto parole decisive a questo proposito, tanto per citare qualcuno. Anche se a volte ne siamo tentati e la nostra fragilità ci fa cadere in questi atteggiamenti non possiamo dimenticare che certo non è con la contrapposizione, col dire quattro e quattr’otto, con la pressione mediatica, col dividere i buoni dai cattivi che si dà all’altro una occasione di riflessione, di cambiamento o di integrazione.

Dialogo, pazienza, dolcezza, cura del dettaglio, disponibilità a mettersi in discussione, inclusività ed attenzione nei confronti delle necessità di ognuno, sono la strada obbligata per chiunque e specialmente per chi sceglie di stare dalla parte degli ultimi. Di più, sono l’inoppugnabile riscontro della bontà delle intenzioni profonde.

Un ultimo punto mi preme sottolineare nelle parole del vescovo Tardelli: il ruolo della politica nelle vicende ecclesiali. Altissimo è il contributo che, almeno in tempi passati, i cristiani e il pensiero cattolico hanno saputo dare alla vicenda politica del nostro Paese, almeno alla politica intesa come servizio all’uomo, impegno disinteressato per il bene comune, forma di carità. Tuttavia la distinzione e lo scarto di questi valori di fondo con l’attualità e con la cronaca è piuttosto stridente perché tali principi, peraltro da tutti evocati, anche in questo caso non sembrano nascere da atteggiamenti ed orizzonti interiori che poi diventano stili di vita e alla fine si incarnano in decisioni e scelte e comportamenti. Restano spesso parole. Parole di cartone.

Il rapporto tra la Chiesa e la politica – si potrebbe dire recuperando un linguaggio un po’ arcaico – va facendosi di conseguenza molto complesso. Se non mancano atti e circostanze di aperta ostilità, permangono tuttavia situazioni e momenti (ad esempio quelli elettorali) in cui la politica, nelle sue espressioni di partito o di associazione, cerca di strumentalizzare la Chiesa, a volte anche per supplire ad una mancanza di idee o di collegamento vero con le persone. Purtroppo non sembrano scarseggiare infatti coloro che, a vario titolo, cercano di sfruttarla dal punto di vista della visibilità personale, o economico, o del pubblico consenso o altro ancora. Ed ogni vicenda di cronaca, perfino questa, ne è un esempio.

Eppure anche di fronte a questo la Chiesa deve continuare a dialogare e a battersi, opportune et importune, per un mondo in cui l’uomo, la sua dignità e i suoi bisogni fondamentali siano al centro.
Se mai come ora è stato fragile e problematico il dialogo tra Chiesa e politica, tra Chiesa e politici (o aspiranti tali), è altrettanto vero che mai come ora è urgente riaprire questo dialogo e cercare di dare, da cristiani, il contributo più efficace possibile specialmente in un tempo, come è stato detto nelle conclusioni della Settimana Sociale di Cagliari, di «investimenti senza progettualità; finanza senza responsabilità; tenore di vita senza sobrietà; efficienza tecnica senza coscienza; politica senza società; rendite senza ridistribuzione; richiesta di risultati senza sacrifici».
Orizzonti di senso – e non piccole vicende di cronaca – da riscoprire e sui quali riflettere a lungo. Almeno per chi vuole lavorare per una comunità più bella e più giusta.

Edoardo Baroncelli
ConDirettore Regionale della Pastorale Sociale e del Lavoro
Conferenza Episcopale Toscana