LEGGERE LA CITTÀ 2016: UN PUNTO DI VISTA

Leggere la città“. Vogliamo anche noi dare un contributo alla riflessione e al dialogo di questa città. Lo facciamo in un modo originale, perché crediamo che siano molteplici e nessuno da scartare gli approcci al tema. Soprattutto ci sta a cuore che oltre e aldilà degli eventi e delle mode, valga la pena cercare di andare in profondità e imparare ad ascoltare innanzitutto quello che la città, chi l’ha vissuta e la vive, dicono, entrando così in un dialogo concreto e vero.

Se Celentano dialoga con non so chi

C’è una città nella città in cui passeggiare non lascia indifferenti. È una città quieta e silenziosa, aperta a tutti, senza discriminazioni. Educa a una laicità piena e risolta sub specie aeternitatis che in italiano suona come un invito a guardare tutto da una prospettiva più ampia e pacificante. Questa città nella città che cresce e muta senza troppo rumore è il cimitero.  A Pistoia basta fare due passi fuori le mura, oltrepassare il gorgoglìo della Brana per affacciarsi su questa cittadella compresa tra l’Arcadia e i vivai, la piana e l’Appennino.  In questa città dei morti la città dei vivi scopre la sua identità e quella dei morti riflette i valori e i giudizi dei vivi.

Si può leggere la città a partire dal cimitero. Gli antichi ce lo insegnano. Chi passeggia sull’Appia Antica a Roma si fa un’idea di cosa intendo. Poi è arrivato un tempo in cui la città si leggeva nelle cattedrali. A Pistoia le glorie cittadine religiose (il Vescovo Atto, il Cardinale Forteguerri) dialogano con quelle civili (vedi il bel cenotafio a Cino da Pistoia, lì più dotto giurista che poeta). Non sono tutte tombe monumentali, perché alcuni riposano altrove, ma sulle pareti o sotto l’impiantito, il ricordo dei defunti e le loro spoglie mortali convivono in uno stretto rimando tra città celeste e città degli uomini. Vivi e morti, santi e peccatori, con un po’ di poesia, avanzano come in una grande nave verso l’oriente del giorno che non muore.

Con il tempo i confini della città terrestre non hanno più coinciso con il perimetro delle chiese (ma la questione, almeno a giudicare dal logo di “Leggere la città”, resta aperta e suscettibile di ulteriori sviluppi) e con l’età moderna i destini dei personaggi illustri si sono separati da quelli dei morti. L’Italia unita ha identificato i suoi miti unificatori più o meno riusciti, riconosciuto le glorie patrie e cittadine che danno il nome alle nostre piazze e alle nostre strade, costellato di lapidi e statue i palazzi e le strade del centro. Queste memorie dialogano davvero con la città? Senza tetto e sbandatelli stazionano quasi invisibili sotto le terga monumentali del cavallo di Garibaldi, donne con e senza velo passeggiano sotto l’austero Forteguerri nella piazza delle scarpe, ribattezzata dello Spirito Santo ma che a dire il vero spetterebbe a Sant’Ignazio. I morti, ce lo ricordano a scuola i Sepolcri del Foscolo, dialogano altrove, disponibili a più private e raccolte corrispondenze d’amorosi sensi. Quando percorro i vialetti del cimitero, infatti, partecipo ad un dialogo laico e democratico e ripercorro storia e microstoria della nostra città.

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Chi entra al cimitero Comunale, ad esempio, è subito salutato con essenziale monumentalità dal sepolcro di Marino e Marina Marini. Più simpaticamente Francesco Melani, dalla sua lapide colorata dialoga con il regista Mauro Bolognini, ben identificabile grazie alla sua curiosa tomba pellicola. Poi, più su, attraversando i quadri di pistoiesi meno noti, c’è anche Celentano. Tutti lo ricordano, l’ubriaco cittadino, che percorreva la città dondolando e canticchiando come l’altro Celentano. Un personaggio. Ma qualcuno ci ha mai dialogato sul serio? Forse sì, perché qualche mano amica e pietosa ha cura della tomba, oggi coperta di crocifissi di diversa foggia e misura. Accanto a lui giace un’ignota signora, la cui tomba è spezzata e il nome perduto. Che si diranno Celentano e l’ignota signora? Nei lunghi pomeriggi d’estate, quando il marmo e il granito sono roventi per il sole, o nelle lunghe notti d’inverno spazzate dalla tramontana? C’è un dialogo sorprendente innescato dai loculi o dai tumuli del cimitero, in cui si incrociano esistenze diverse. Donne e uomini vissuti nell’anonimato sono affiancati a volti celebri della città, centenari giacciono accanto a giovani strappati prematuramente alla vita. C’è chi ha passato tutta la vita chiuso in casa nell’infermità e chi è stato sempre sulla breccia. Pistoiesi, forestieri, nuovi cittadini dall’est Europa o dall’Africa si trovano gomito a gomito nell’ultimo riposo. I piccoli e gli indifesi accanto ai loro dottori e amici, ma anche a chi li ha sempre ignorati. “Vittime” e “carnefici” irrimediabilmente insieme. Almeno da morti si ascolteranno, accogliendo ognuno le ferite dell’altro? La città continuerà a dialogare o con qualcuno avvierà un discorso per la prima volta?

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Diceva Platone che tutta la filosofia non è altro che una preparazione alla morte (Fedone, 64a-68b). Proprio lui, che del dialogo era il maestro. Una fatica necessaria, quella del dialogo, per fugare il timore e riporre ogni bene oltre le ombre del mondo. Si può essere più o meno d’accordo, ma i dialoghi di oggi dove ripongono il bene? Il caso serio della morte com’è presentato? “Caso serio”, dopotutto, perché la storia e la cultura delle nostre città si appoggiano ad un passato di figure illustri o di “martiri” condivisi. Ma morti. E morti soltanto o soltanto morti? C’è chi dice che la morte è oggi rimossa, che è esorcizzata e addomesticata, sebbene trionfi sui nostri mezzi di comunicazione. Eppure spaventa al punto che c’è chi vive di paura, l’un contro l’altro armato. L’ora delle tenebre in cui il Figlio di Dio è consegnato agli aguzzini rintocca nelle preoccupazioni locali e globali di un mondo rimpiccinito dalla paura e nelle speranze. Rinchiuso nella Torre di Londra, in attesa della decapitazione, Tommaso Moro appuntava che l’ora delle tenebre, in realtà, è soltanto un’ora e dura un’ora soltanto. L’ora delle tenebre scriveva: “ha perduto il passato e non raggiunge il futuro” (De Tristitia Christi, II, 2).

Noi, che crediamo ciò che credette per cui visse e morì San Tommaso Moro, crediamo che il presente di Dio dia compimento al passato, illumini e anticipi il futuro. Crediamo che un dialogo più bello e senza incomprensioni, lo intrecceremo nella città celeste. Ma crediamo anche che la città dei vivi già sperimenti un anticipo di questo dialogo futuro perché per questo dialogo è chiamata a vivere e servire. La morte – insegna la parabola- non rimedia la distanza terrestre tra il povero Lazzaro e il ricco epulone, né offre spazio a chiacchierate fuori tempo massimo (Lc 16,19-31). Nella Cattedrale, almeno in preghiera, i vivi dialogano e provano a volersi bene, mentre i morti – non già morti ma santi, per battesimo e santità di vita- camminano insieme con loro verso la mèta eterna nel presente di Dio. Se fuori dalla Cattedrale gli spazi del dialogo prendevano un tempo la forma di ospedali, ospizi, scuole, mense, strade, anche oggi chi crede vive luoghi come questi, ma riconosce di percorrerli insieme a chi non entra nel perimetro della Chiesa. E se il Papa invita a “raggiungere con la Parola di Gesù i nuclei più profondi dell’anima delle città” ricorda anche che “nelle grandi città si può osservare un tessuto connettivo in cui gruppi di persone condividono le medesime modalità di sognare la vita e immaginari simili e si costituiscono in nuovi settori umani, in territori culturali, in città invisibili. Svariate forme culturali convivono di fatto, ma esercitano molte volte pratiche di segregazione e di violenza. La Chiesa è chiamata a porsi al servizio di un dialogo difficile” (qui e dopo Evangelii Gaudium, n. 74). Nella città, anche a Pistoia, crescono i non-luoghi, gli spazi del consumo e della dimenticanza, di “cittadini a metà”, “non-cittadini”, “avanzi urbani”, come indica il Papa. D’altra parte, come ribatte con una bella espressione, “una cultura inedita palpita e si progetta nella città”. Tutti insieme, quali viatori inconsapevoli e consapevoli, percorriamo le vie della grazia di Dio, come i pellegrini della Francigena di un tempo, per riprendere fiato, prima dell’ultima ascesa (o discesa?) nel cimitero in via dei Campisanti. Più o meno consapevoli di non dover attendere la morte per intrecciare dialoghi inediti.

don Ugo Feraci