Omelia per la Festa di San Domenico (24 maggio 2016)

FESTA DI SAN DOMENICO

Chiesa di San Domenico – Pistoia 24 maggio 2016

 

Il ricordo di San Domenico ci vede qui riuniti stasera, in questa chiesa pistoiese a lui dedicata, nell’occasione anche degli ottocento anni di vita dell’Ordine. Pistoia deve molto ai figli di San Domenico. L’opera del Beato Vescovo Andrea Franchi (1335 – 26 maggio 1401) rimane un momento importante nella storia della chiesa pistoiese, per la predicazione fervente, per l’attenzione ai poveri, per la costante opera di pacificazione nella città. Oltre a lui, molti altri sono i testimoni di fede domenicani – uomini e donne – che hanno lasciato traccia in questa nostra terra. Fino ad arrivare ai nostri giorni e ho in mente in particolare la figura di Mons. Paolo Andreotti (1921 – 1995), vescovo missionario in Pakistan, scomparso in tempi ancora recenti.

Vien da dire davvero con il profeta Isaia: “Come sono belli i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza in Sion!”. Si, perché così può ben essere definito San Domenico e chi lo ha seguito e lo segue: un messaggero che annuncia la pace, un messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza.

Il brano della prima lettura, tratto dal Deuteroisaia, parla di consolazione e di speranza. E’ un invito a Sion, la città santa, immagine del mondo intero che ha bisogno di questo messaggio di consolazione e speranza, viste le condizioni in cui versa. Il motivo della consolazione è il ritorno del Signore in Sion. Nei versetti che precedono la pericope liturgica, Sion, personificata nella figura di una nobile signora, caduta nella polvere, con gli abiti sporchi, è invitata a rialzarsi e a rivestirsi delle vesti più splendide perché viene il Signore. E l’annuncio, il vangelo, di questo ritorno del Signore è portato da un messaggero che corre verso Gerusalemme attraverso i monti. Le sentinelle della città lo avvistano, e alzano la voce, gridano di esultanza. Ecco prorompere la gioia che da speranza a una città che è in rovina, che ha bisogno di riscatto e salvezza. Il Signore viene a salvare il suo popolo ma questa salvezza è per tutti i popoli, tutti i popoli sperimenteranno la salvezza del Signore. Canto profetico, questo di Isaia, che apre direttamente alla scena della venuta del Salvatore in terra di Giuda, a quella Buona notizia che è il Signore Gesù.

I “messaggeri di buone notizie”, cioè di vangelo – i settanta traducono il mebassèr ebraico con una forma del verbo evangelizzo (εuαγγελιζομένοS) – per San Paolo (in Rm 10,15) sono gli apostoli, annunciatori del messaggio della redenzione operata da Cristo. Gli apostoli e i loro successori, come ci fa intendere proprio Paolo scrivendo a Timoteo nel brano ascoltato. Estensivamente possiamo pensare però a tutti i battezzati che condividono la gioia dell’annuncio del Vangelo. Ce lo ha recentemente ricordato Papa Francesco nella Evangelii gaudium. Una missione nella quale i figli di San Domenico si sono sempre distinti: “santa greggia” dice Dante, che “Domenico mena per cammino”, alla cui scuola però, come avverte ancora il sommo poeta, “ben s’impingua se non si vaneggia”.

Il brano della II a Timoteo costituisce quasi il testamento spirituale di Paolo. Il tono è accorato, possiamo anche dire preoccupato. Timoteo deve sentirsi responsabile dell’annuncio della Parola. Di qui l’insistenza ad assumersi un impegno a tutto campo che l’incalzare dei verbi sottolinea: annuncia, insisti, cerca di convincere, rimprovera, esorta. Il messaggero, l’evangelista o, come nella traduzione liturgica attuale – l’annunciatore del vangelo – è portatore di una Buona notizia che è salvezza: la Misericordia prorompente di Dio rivelatasi nella morte e resurrezione di Cristo. Non è però dato affatto per scontato che gli uomini, tutti gli uomini, questa buona notizia la vogliano accogliere e, prima ancora, la considerino davvero “buona”. Con sottile ironia infatti Paolo descrive una situazione che sembra una profezia dei nostri tempi: pur non sopportando più la sana dottrina, gli uomini non rinunceranno a farsi erudire, non da uno solo, ma addirittura da una folla di falsi maestri che accarezzano le loro orecchie e propineranno loro favole, invece della verità.

Il “messaggero di pace e di salvezza” in ogni caso non si può e non si deve arrendere. Paolo porta ad esempio se stesso. Già intuisce quale sarà la sua fine; ciononostante ha il cuore pieno di gioia nella consapevolezza di aver fatto del suo meglio per adempiere al mandato che gli era stato affidato. Quelli di Paolo dovrebbero essere i sentimenti di ogni buon domenicano, certamente, ma anche di tutti noi, chiamati dal Signore a essere testimoni del suo Vangelo in questo nostro tempo; dentro questa umanità contraddittoria ma al tempo stesso amata infinitamente da Dio.

Il brano di Matteo è la conclusione del suo vangelo. Una sua narrazione esclusiva, anche se ci sono dei parallelismi con gli altri evangelisti. Qui però siamo in Galilea. La Galilea delle genti, regione di frontiera aperta al mondo dei pagani, dei non circoncisi. Questa cristofania apostolica, sul monte, in Galilea, orienta decisamente alla missione universale. L’atto dell’adorazione precede la missione, anche se è un’adorazione sempre minacciata dal dubbio. Qualcosa dunque che si deve rinnovare ogni giorno. Ogni giorno l’inviato deve incontrare il Signore risorto e fare esperienza di Lui. Da questo incontro nasce la missione. Come non ricordare qui il ben noto motto domenicano, così sapiente e vero: “contemplata aliis tradere”? E la missione, in questa finale matteana è connotata da una indiscutibile dimensione ecclesiale. Potremmo dire, si, la chiesa è al servizio del Regno, ma non si può entrare nel Regno se non appartenendo ad essa. La missione quindi, secondo Matteo, che non conosce limiti di spazio e di genti, è per tutti; che non conosce limiti di tempo, è sino alla fine dei tempi, ha come scopo specifico quello di far discepoli, portando gli uomini all’adesione di fede alla persona del Cristo, attraverso il battesimo quale sigillo interno e segno esterno di appartenenza alla chiesa. Un’adesione che è inseparabile dall’osservanza dei precetti evangelici: “insegnando ad osservare tutto ciò che vi ho ordinato”.

Compito certo arduo, quello che ci è affidato, considerando anche la nostra debolezza e il nostro peccato. Ma la chiusa del Vangelo di stasera ci deve dare coraggio. “Ecco” – dice il Signore – “io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo”.